I miei viandanti

sabato 31 ottobre 2009

Dolcetto o Scherzetto?


E siamo di nuovo alla vigilia di quella ricorrenza che, negli ultimi anni, anche da noi non viene chiamata più Ognissanti ma Halloween, seguendo una moda proveniente da oltreoceano che ha profondamente alterato le valenze simboliche del 1 e 2 Novembre.

Come succede già per Natale , Pasqua e Carnevale, ormai quasi svuotate dei loro significati rituali e religiosi, anche Halloween si è trasformato in una festa a base di streghette e zucche, scheletri, dolci e gadgets vari: non ho niente contro questa tradizione americana, peraltro piuttosto antica e interessante, ma sicuramente sarebbe bene conoscere anche le nostre, di tradizioni, altrettanto affascinanti e articolate.

I bambini che vanno in giro mascherati, bussando alle porte, imitando i loro coetanei americani, e chiedendo minacciosamente Dolcetto o Scherzetto, bussando ad almeno 13 porte, non sanno infatti di seguire un rituale ben più antico, e dalle valenze piuttosto macabre.

Secondo tradizioni arcaiche, soprattutto contadine, diffuse in tutta Europa e in particolar modo nel nostro sud, il mondo dei vivi e il mondo dei morti non sono luoghi spazio-temporali completamente separati, né completamente uniti: sono due mondi che coesistono, e dove ci sono dei luoghi e dei tempi in cui il passaggio può avvenire.

Le anime dei defunti, al momento della morte, devono partire per un viaggio che li porterà nell’al di là, dove restano confinati come anime, e al cimitero, dove restano confinati come corpo, in uno spazio protetto e ben lontano dalla città dei vivi.
Una delle immagini più evocative di questo passaggio rituale è quella del ponte di san Giacomo, diffuso fino a pochi decenni fa nelle nostre regioni meridionali (che dà il nome al bel saggio di Lombardi Satriani, edito da Sellerio, 1989), un ponte sottile come un capello che il morto deve attraversare allo scoccare della mezzanotte (altrimenti si rischia di vagolare, inutilmente, per il mondo), e che i vivi non possono assolutamente valicare.

I morti però, a volte, riescono a trovare un varco, una porta aperta verso il mondo dei vivi, e non sempre questo ritorno è una cosa positiva.

La paura del ritorno di entità ormai estranee viene esorcizzata dalla società attraverso una delimitazione spazio temporale del loro ritorno, una specie di istuzionalizzazione del passaggio in giorni stabiliti, con la funzione apotropaica di esorcizzare il sovrannaturale codificandolo in modalità e tempi prevedibili.
Uno di questi giorni è la magica notte di Valpurga, tra il 30 aprile e il 1 maggio e l‘altra sarebbe, appunto, la notte di Ognissanti: nelle nostre tradizioni italiane questo ritorno non avviene infatti il 31 ottobre, ma la notte successiva, quella tra il 1 e 2 novembre, la Vigilia del giorno dei Morti.
In alcune credenze siciliane, ad esempio, i morti uscivano dal cimitero e facevano il giro del paese, in processione. Alcune testimonianze raccontano, addirittura, di una Messa dei Morti, celebrata in chiesa alle presenza dei defunti, a cui ad un vivo era assolutamente probito partecipare, se non a proprio rischio e pericolo.
Era uso, in molte case, lasciare delle candele alle finestre, in modo che le anime potessero ritrovare la strada del ritorno, oppure una bottiglia di acqua per farli dissetare, o delle offerte di cibo, per sfamarli e propiziarsene la benevolenza.

In alcune credenze calabresi erano invece i morti a lasciare i doni, frutta secca, castagne o dolci, soprattutto ai bambini, delle figure assimilabili in qualche modo alle strenne natalizie.
In altre tradizioni ancora queste elemosine rituali venivano fatte ai poveri e a quelli che si presentavano alla porta, che venivano sfamati in suffragio dei parenti defunti e delle anime del Purgatorio.
In molte leggende i bambini vengono, in qualche modo, assimilati a degli intermediari tra i due mondi, così come le maschere hanno spesso, nel folclore, una valenza simbolica riferita alla morte. L'usanza di mandare in giro i bambini mascherati potrebbe avere delle radici proprio in queste vecchie usanze.

Questi rituali antichi prendono forme diverse nel resto dell’Europa, soprattutto celtica, in cui la notte del 31 ottobre veniva festeggiata Samhain, la fine dell’estate e l’inizio dell’oscurità. Questa festa pagana ha molte assonanze con Halloween e anche con i nostri Morti, perché anche qui si aprirebbe un passaggio tra i due mondi, una notte magica in cui spiriti, anime, fate, elfi e folletti circolano liberamente nel nostro mondo, e in cui è possibile accedere al mondo dell’al di là.

Anche per Samhain, oltre ad accendere grandi falò, venivano fatte offerte di cibo ai defunti.

Il cristianesimo ha tentato per secoli di cancellare questi rituali pagani, ma invano. Alla fine li ha inglobati nella festa di Ognissanti e in quella dei Morti, un po’ come ha fatto col Natale, assimilando sincreticamente la nascita di Gesù col il Solstizio d’Inverno e con la festività mitraica del Sole Invitto.

Il folclore e le credenze legate a questa notte e al culto dei morti, sia celtiche che del nostro paese, sono estremamente affascinanti, soprattutto per un’epoca come la nostra, in cui il soprannaturale è relegato ai margini della società, recintandolo negli ambiti ristretti della religione e della magia da strapazzo (non per niente maghi, tarocchi e cartomanti fanno fior di affari): la luce della scienza ha spazzato via superstizioni e leggende – e per fortuna- ma i racconti di un mondo altro, un mondo di spiriti e anime vagolanti che entra, occasionalmente, in contatto col nostro, non cessa di affascinarci.

Ovviamente dai defunti alle streghe e ai demoni il passo è breve, in una notte incantata in cui ogni porta è spalancata e gli spiriti sono tra noi…

E quindi, stanotte, oltre a regalare dolci e caramelle ai bimbetti vestiti da Streghe e Scheletri, lasciate una candela accesa e una bottiglia d’acqua alla finestra, in modo che le anime in visita possano ritrovare la strada per il Ponte di San Giacomo, per non rischiare di lasciarle peregrinare tristemente nel nostro mondo razionale e disincantato.

mercoledì 28 ottobre 2009

Il mio Secondo Blogcompleanno





E siamo arrivati anche al compimento del secondo anno, è veramente incredibile come vola il tempo...se qualcuno mi avesse detto, due anni fa, quante nuove esperienze, quante lettere, quante fotografie, quanti racconti e incontri sarebbero accaduti grazie a questo diario virtuale, non ci avrei creduto. E neanche che avrei avuto la sensazione di fare qualcosa di bello, di interessante: quasi 200.000 pellegrini che sono passati di qua non sono uno scherzo, e li vorrei davvero ringraziare tutti, uno per uno.

Era nato, questo blog, un po' per caso un po' per gioco, come ho raccontato in queste pagine, ed invece si è trasformato in un appuntamento irrinunciabile, qualche volta racconto, qualche volta sfogo, altre volte confronto e occasione di condivisione, ma sicuramente mai inutile, quantomeno per me.
Le persone che mi hanno scritto, in questo periodo, sono davvero tante: alcune lasciano commenti, altre invece mi seguono in maniera silenziosa, rivelandosi ogni tanto per lettera e, da quello che scrivono, capisco che leggono con attenzione, con costanza, addirittura con affetto.
Sono veramente contenta di tutto questo, e spero di continuare a dire e raccontare cose interessanti e non superflue, almeno non del tutto...





Mi piacerebbe essere più costante, scrivere con maggiore cura, avere più tempo per passeggiare per Roma, la mia incantevole città, e condividerne con voi ogni angolino, ogni bellezza nascosta, ogni statua e ogni quadro, ma non sempre si ha il tempo, e l'energia, per farlo.
Mi piacerebbe avere la voglia di mettermi più spesso di fronte allo schermo bianco e fermare in un istante il tempo che scorre, i pensieri che fluiscono rapidi e impetuosi, fotografare i ricordi prima che scompaiano, prima che svaniscano nella nebbia...
Ma alla fine, si fa quel che si può: quando si sente l'urgenza di farlo, l'energia viene e l'entusiasmo, quello che per qualche momento sembrava evaporato del tutto, ritorna prorompente come prima, e si ricomincia daccapo.

E quando sempre di non aver più niente da raccontare, di aver già detto tutto, ecco un piccolo accadimento, un'emozione, una scoperta che fanno venir voglia ancora di appuntarla in queste pagine.






Mi piace fare la ciambelle, mi piace l'odore quando si cuociono nel forno, e i granelli di zucchero che scrocchiano sotto i denti. Sono facili da impastare, facili da cuocere e sono belle da vedere, non so a voi ma me danno proprio l'idea della cucina rustica, dei dolcetti tradizionali di paese.
Qui nel Lazio ce ne sono svariate, che prima o poi proverò: spesso sono all'anice, magari con le nocciole, o con i semi di finocchio, tutte comunque con degli impasti semplici, con poco o niente burro, proprio come piace a me.
Ne ho già provate diverse al vino ed erano buonissime, per cui proseguirò allegramente nelle mie sperimentazione ciambellinesche!

Queste ciambelline al mais sono state fatte col lievito normale (ancora non avevo trovato l'ammoniaca) assemblando un po' ad occhio le dosi, perchè dovevo finire un pacco di farina di polenta che non voleva saperne di finire.
Sono delle ciambelline molto croccanti e leggerissime, di un caldo color giallo, ottime per essere inzuppate nel caffellatte ma anche nel the. La farina di mais è quella a grana grossa, ma potete provare anche con quella a grana fine.





Ciambelline al mais
2 uova intere
180 grammi Farina di mais fioretto
180 grammi Farina 00
80 grammi olio evo
200 grammi zucchero
Mezza bustina di lievito
Due cucchiai di vinsanto
zucchero per spolverare





Per due teglie grandi:

Frullare la farina di polenta nel frullatore (non è che si sia frullata molto, ma io ci ho provato).
Mescolare le due farine e il lievito a fontana in una ciotola, mettere al centro le due uova intere e lo zucchero.

Quindi impastare con l'olio e il liquore, fino ad ottenere un impasto lavorabile, anche se appiccicoso, e rovesciarlo sulla spinanatoia infarinata.

Cominciare a comporre le ciambelline, passarle nello zucchero e disporle sulla teglia coperta di carta forno.

Infornare nel forno caldo a 170 gradi, sul terzo ripiano dal basso (quello per le crostate) con una leccarda al piano di sotto per non farle bruciare.

Si cuociono in circa 25 minuti.


sabato 24 ottobre 2009

Luci e ombre dell'inverno





Ed eccoci arrivati, ufficialmente per me l'inverno entra adesso, altro che 21 dicembre.

A fine marzo, con l'inizio dell'ora legale, ho una settimana di trauma da stanchezza: io già sono dormigliona di mio (anche se per dormigliona intendo dormire fino alle 8), alzarmi presto è una vera prova di crudeltà con l'ora solare, figuriamoci quando mi devo alzare un'ora prima...il mio corpo e la mia psiche, prima di abituarsi, si stressano non poco...poi, però, le lunghissime giornate estive mi ripagano di tutta la fatica.

L'ora solare però ci fa precipitare improvvisamente nel buio...quei lunghi pomeriggi oscuri e freddi che iniziano a novembre, esci la mattina col buio e ritorni alle cinque al crepuscolo, certe volte sembra di non vederlo mai, il sole...e sembra sempre tardi, quando si torna a casa e si trova la casa tenebrosa e gelida, sembra già notte e pare che non si abbia il tempo di fare niente che è già ora di andare a dormire.

Non so voi, a me l'inverno sembra lunghissimo, infinito...sei mesi di tenebra e freddo, troppo breve la dolce primavera e breve pure la bollente estate...e dire che siamo a Roma, mica in Norvegia!

Non so davvero come facciano, al nord, a sopportare le tenebre che li avvolgono per la maggior parte dell'anno, forse ci sono abituati...

Una conseguenza di questa oscurità è poca voglia di uscire da casa...questo pomeriggio avevo deciso di andare al cinema, ci sono molti film interessanti in uscita questo week end ed invece ho preferito rimanermene al calduccio, con una tazza di the caldo (una delle poche cose piacevoli dell'inverno), a mettere in ordine il mio computer. Ho il terrore di un improvviso crash e di perdere fotografie e appunti, nonchè musica e film, e allora faccio doppie e triple copie su vari hard disk, che però ogni tanto traboccano e rischiano di esplodere...allora ho cominciato a masterizzare e ad eliminare, anche se il ciarpame accumulato è sempre tanto...ma come facevamo qualche anno fa, quando non esistevano hard disk esterni e neanche Dvd?

Mi ricordo che facevo i miei back up sui dischetti, e parlo del 2003: avevo un sito che periodicamente salvavo, stava tranquillamente in due Floppy!





Adesso ho 4 hardisk e centinaia di Dvd, ma è anche vero che, oltre a musica e video, che si possono avere sul pc solo da relativamente poco tempo, anche le fotografie digitali sono piuttosto pesanti, soprattutto quando se ne hanno quantità industriali come me...non avrei mai pensato di accumulare migliaia di scatti in poco tempo, decine e decine di immagini di ogni torta, centinaia di inquadrature di luoghi e soprattutto i miei gatti fotografati in ogni posa. Secondo me, se qualcuno si mette a frugare tra le mie fotografie, mi fa rinchiudere in qualche clinica psichiatrica per maniaci...

:-)





Ecco un altro dolcetto semplice semplice a base di yogurt, in cui il sapore esotico del cocco si mescola a quello dolce delle mele e delle mandorle. Ho assemblato la ricetta un po' ad occhio, ma sono assai soddisfatta del risultato.
Per una teglia a cerniera 24 centimetri:

280 grammi farina
3 uova medio-grosse
200 grammi zucchero
2 yogurt interi
2 mele
2 cucchiai di liquore
70 grammi di farina di cocco
100 grammi mandorle non pelate
1 bustina di lievito

Tagliare le mele a fettine sottili.

Battere le uova intere con lo zucchero, fino a farle diventare bianche e spumose.

Aggiungere gli yogurt, il liquore, poi aggiungere la farina mescolata al lievito.
In ultimo aggiungere la farina di cocco, mescolando con un mestolo di legno senza far smontarel'impasto.
Aggiungere le mele, quindi versare nella tortiera foderata di carta forno.

Cospargeredi mandorle, quindi infornare per circa 45 minuti a 180 gradi, nel forno caldo, secondo ripiano dal basso.

Una volta fredda, spolverare di zucchero a velo.



lunedì 19 ottobre 2009

Il Crème Caramel della nonna Ilse



Ci sono delle cose per cui sono portata, come i ciambelloni che mi riescono pure a occhi chiusi: invento dosi, ingredienti e accostamenti sull’estro del momento e, nella maggior parte dei casi, ci azzecco alla grande. Ci sono delle cose che ho imparato dopo un po’ di pasticci e disastri, come i biscotti e le ciambelle, ho capito tecniche e metodi di cottura ed allora è una bella soddisfazione.

Esistono poi preparazioni con cui non ho un buonissimo rapporto, come la pastafrolla: nonostante l’abbia fatta spesso, ogni tanto ne assaggio qualcun’altra che mi piace molto di più, ma non riesco a far diventare la mia, in nessun modo, come quelle. Sento sempre troppo burro, che a me non piace, oppure rimane troppo morbida, insomma, non sono mai soddisfatta delle mie crostate.

Ci sono invece delle cose con cui ci litigo da sempre, una di queste è la classica crema (che mi riesce sempre da schifo, invece il cioccolato no, misteri della pasticceria), l’altro è il Crème Caramel…tutte le volte, nonostante abbia provato delle ricette collaudate da persone fidate, mi è sempre venuto un disastro, nonostante tutti i miei sforzi.



E qui apro un’altra parentesi per raccontarvi da dove proviene questa ricetta, di una signora tedesca di nome Ilse, ed è doverosa perché mi è arrivata in un modo decisamente fuori del tempo, per lettera, stampata su un foglio di simil pergamena in caratteri antichi, come una ricetta d’altri tempi.

I propri parenti purtroppo non si possono scegliere (e non posso dire di essere stata particolarmente fortunata, tranne pochi e selezionati parenti a cui sono molto affezionata), e non si scelgono neanche quelli acquisiti, in questo caso quelli di mio marito.
Ma anche qui, per fortuna, ho trovato delle persone deliziose come mia suocera Donatella (che approfitto per salutare, visto che è una mia affezionata lettrice) e come Silvia, di cui non vi spiego il grado di parentela perché non è facile da raccontare (ci potrei scrivere un romanzo sulle complicate parentele di questa famiglia) e non ci provo neanche. Diciamo che è una specie di suocera anche lei, in qualche modo, spero non si offenderà.
Comunque la ricetta viene dalla sua mamma tedesca, ed è un dolce che anche lei fa spesso: sono sempre alla ricerca di dolci di famiglia, e questo mi è stato trasmesso in una maniera tanto carina che non potevo fare a meno di provarlo, senza contare che è uno dei pochi che piacciono a mio marito.
Allora, con molto entusiasmo mi sono accinta all’opera, e la prima volta è stato un disastro, ma su questo non avevo dubbi.
Innanzi tutto ho usato uno stampo di quelli alti, scanalati, tipo Kugelhupf, assolutamente inadatto, ma questo ovviamente l’ho scoperto dopo.
Il caramello, incredibile, mi è venuto al primo colpo perfetto, non capisco perché tutti hanno problemi con lo zucchero…quasi non ci credevo!



E poi ho messo lo stampo a bagnomaria sul fornello, e non immaginavo che l’acqua, bollendo, salisse allegramente nel foro dello stampo, allagando tutto il budino…insomma, l’ho lasciato a cuocere un’ora e mezzo dopo aver cercato di togliere l’acqua, disperando sul fatto che risultasse commestibile. Quando finalmente si era ben freddato in frigorifero, l’ho rovesciato e si è completamente spatasciato sul piatto, con mia grande desolazione.

Il sapore era buono, ma non c’è gusto a mangiare un budino completamente a brandelli.
Non vinta, ho ricominciato daccapo, procurandomi però i pirottini di alluminio: sarà meno scenografico da vedere, ma sicuramente si rischiano meno disastri.
Alla fine, non dopo altri inconvenienti (tipo che si è spento il forno e ho sbagliato il ripiano) sono riuscita a sfornare questo capolavoro, bello da vedere e vi assicuro buonissimo!!

I tempi di cottura prendeteli con le molle, perché ho cambiato ripiano mentre si cuoceva: ho imparato che sul terzo ripiano, quello dove si cuociono le crostate, il budino non si cuocerà mai!

Invece sul secondo, quello dove si cuociono i ciambelloni, si è cotto in circa 45 minuti. Potete cuocerlo anche sul fornello come da istruzioni, ma in questo caso ho preferito farlo nel forno.

Questa è la descrizione esatta di come l’ho fatto: sicuramente lo ripeterò e, quando mi sentirò più sicura, voglio provare il classico stampo da budino ad anello, perché la soddisfazione me la voglio togliere!






Per 6 stampini:
mezzo litro di latte intero
2 uova intere e 2 tuorli
150 grammi di zucchero
buccia di limone
Mettere a bollire il latte con 70 grammi di zucchero e la buccia del limone, che toglierete dopo.

Lasciar sciogliere bene lo zucchero, poi spegnere e lasciare una mezz’ora a freddarsi. Togliere il limone.

Battere 2 uova intere e 2 tuorli (le mie erano medio-grandi) con la frusta di acciaio, non devono montarsi ma solo mescolarsi bene. Aggiungere le uova al latte e mescolare bene con la frusta.
Accendete il forno a 170 gradi, col ripiano pronto sul secondo livello.
Mettere a scaldare un pentolino d’acqua.
Prendete una pirofila dai bordi alti e foderatela con un foglio di alluminio (dicono che così non vengono le bollicine, e in effetti nei miei non c’erano, almeno dentro).

A questo punto mettere 80 grammi di zucchero nello stampo (se ve la sentite di usare lo stampo grosso) oppure in un pentolino e mettete sul fuoco, mescolando in continuazione fino a quando lo zucchero si è bello sciolto, ma facendo attenzione a non farlo bruciare.

Colare il caramello negli stampi (se sono i pirottini, un cucchiaio a stampino), quindi versate la crema attraverso un colino, riempiendoli bene, tanto poi si ritira in fase di cottura.

Dispoteli sulla teglia, e versatevi lentamente l’acqua calda, poi infilateli nel forno e fateli cuocere circa 45-50 minuti.

Quando sono cotti, togliete dal forno e fateli freddare, quindi infilateli nel frigorifero per qualche ora.
Per rovesciarli, tagliate con un coltellino affilato il bordo, quindi rovesciate sul piatto e sformateli. Se non ci riuscite, fate dei buchini sul fondo, ma a me sono venuti fuori subito.

Non vi pare una meraviglia?


venerdì 16 ottobre 2009

Adolescenti confusi e ribelli: Cosmonauta





Ed ecco un altro film che parla degli anni Sessanta e dei profondi cambiamenti avvenuti nella società, ma raccontato in un modo completamente diverso da come ha fatto Placido nel suo il Grande Sogno. Anche qui c’entrano i giovani e c’entra la politica, ma in questo piccolo, delicato film, è l’ironico sguardo femminile (la regista è Susanna Nicchiarelli) che racconta le disavventure di una goffa adolescente comunista: e siamo nel 1963, prima dell’atterraggio americano sulla Luna, e prima delle grandi lotte del ’68, un’epoca che sembra vicina ma anche irrimediabilmente lontana, allo stesso tempo.

Quando siamo arrivati al cinema, leggermente in ritardo, le luci erano già basse e, strisciando tra le file di poltrone, abbiamo visto le prime immagini di animaletti in plastilina: ci siamo seduti, aspettando il film, quasi incerti se avessimo sbagliato sala.

In effetti gli animali (due cani, una gabbia di topolini, un gatto, una ragna e altri esserini pelosi) in missione dentro una navicella spaziale aveva sì a che fare col titolo del film, ma possibile che il film fosse proprio quello? No, in realtà si trattava di un piccolo cortometraggio animato, della stessa regista del film…animazione non finissima (se l’avessero commissionata agli animatori di Shaun the Sheep si sarebbe ottenuto ben altro risultato) ma d’effetto, questa minuscola storia di animali sovietici catapultati nello spazio, tutti fieri di essere gli sperimentatori della prima missione spaziale della Grande Madre Russia, non importa se destinati forse, a loro insaputa, ad una fine terribile: i topolini che saltano nella gabbia cantando l’inno nazionale è una delle chicche da non perdere.

Comunque, il film inizia poco dopo, e veniamo subito catapultati negli anni Sessanta, ad una comunione: il sogno di ogni bambina anche della nostra generazione ( il vestito di organza e tulle, il velo, la borsetta a forma di cuore, chi di voi non ci ha palpitato sopra?) ma Luciana, prima di arrivare all’altare, scappa a gambe levate, con vestito di organza e tutto, per andare a rifugiarsi in bagno e gridare alla madre che non vuole fare la comunione perché comunista.

Luciana è così, arrabbiata e inquieta già da bambina: viene da una famiglia piccolo borghese della borgata del Trullo, il padre comunista e morto giovane, la madre (Claudia Pandolfi) graziosa e fragile, che trova più facile aggrapparsi al primo uomo che le offre una spalla, e non importa che sia tutto il contrario del marito morto (tanto comunista il primo quanto fascista e autoritario il secondo: lui è Sergio Rubini, non nuovo a queste parti di uomo cinico), basta che le assicuri una vita familiare regolare, una casa e un’apparenza di normalità, anche se normalità significa non avere un’opinione propria e spazzare le proprie idee sotto il tappeto, come ogni brava mogliettina dovrebbe fare, in una società in cui le donne non sono ancora scese in piazza a manifestare per i loro diritti.

Luciana è grassottella, complessata ma di carattere ribelle, confusa ma determinata a non lasciarsi sopraffare, arrabbiata contro una madre dalla figura evanescente da cui cerca di differenziarsi, e con un fratello maggiore epilettico che cerca di proteggere, ma che spesso si rivela un peso da cui non riesce a liberarsi. E’ proprio il mondo immaginario del fratello, con la sua passione per le imprese spaziali russe e per l’Unione Sovietica, il tema ricorrente del racconto e che presta il titolo, Cosmonauta, al film.

E’ difficile essere adolescenti negli anni Sessanta, difficile ancor di più essere una ragazza adolescente in una società maschilista anche se, forse, ancora più difficile esserlo in cui tempi bui e cinici come i nostri. Almeno allora c’erano delle regole contro cui ribellarsi, c’era una società contro cui protestare e tentare di smarcarsi: oggi mi pare che chi si ribella lo fa contro il nulla, perché tutti i parametri e i valori sono saltati, e i nostri ragazzi sono contro a prescindere, in una lotta insensata e cieca in cui noia e ignoranza – e non più desiderio di essere altro, di vivere in un mondo alternativo – sono l’unica molla che li spinge ad infrangere regole e buonsenso, a passare sopra tutto e tutti come un bulldozer.

Luciana si sente diversa dalle sue amiche, tutte carine, vestite da signorinelle, già alle prese con la corte di ragazzi brufolosi e in piena tempesta ormonale.
Lei, bruttina ma intelligente, originale e fuori dalle regole ma suo malgrado, passa i pomeriggi alla sezione giovanile del Partito Comunista di quartiere, dove suo padre era benvoluto e dove tutti i giorni si riunisce un gruppetto di ragazzi, ovviamente in prevalenza maschi.
E qui si illude di trovare un mondo migliore, un mondo in cui venire considerata non in quanto donna e non in base al suo aspetto, ma è un’illusione, il conformismo e i valori che aleggiano fuori sono gli stessi che muovono i ragazzi della sessione: le sue idee, la sua intelligenza, vengono ignorate oppure derise. Splendida e significativa la scena in cui una sua idea viene prima ignorata quando è lei ad esporla, e quando viene accettata è a nome di un ragazzo del gruppo, che se ne appropria.

Pur di stare al gioco, si infila in una storia col ciccione sfigato della comitiva, visto che il capo del gruppo, figo e carismatico, e per cui Luciana ha una cotta, preferisce la sua amica stupidina ma graziosa, secondo il classico clichè degli uomini che prima dicono di preferire le donne intelligenti e poi si fidanzano con quelle carine.

La commedia scivola presto nel racconto delle piccole tragedie di un quotidiano fatto di scuola, di vita di quartiere, di giornate costellate di delusioni, della solitudine di chi si sente diverso, di incomprensioni con le persone che invece dovrebbero conoscerci meglio, di regole invalicabili da non infrangere mai, pena l’essere esclusi, emarginati; di piccole e grandi cattiverie di cui sono capaci i ragazzi – non esclusa Luciana- in cui bene e male, compassione e crudeltà si mescolano in un’alchimia incerta e sfuggente che si chiama adolescenza.
Il percorso di formazione di Luciana, doloroso ma necessario, è quello di tutti i ragazzi, eppure diverso per ognuno, e ciascuno di noi se lo porta dentro, irrisolto o meno.

Una storia lieve eppure lucida, un piccolo film dal cuore delicato e dalle molte irrisolutezze: non è difficile riconoscersi e parteggiare per la protagonista, cicciottella, imbranata e arrabbiata col mondo, chi di noi non lo è stata?
Chi non si è sentita tremendamente impacciata, soprattutto accanto a delle amiche carine e spigliate, soprattutto accanto al ragazzo più carino che ti passa accanto neanche fossi trasparente, invisibile, fatta di aria pura? La giovane attrice che interpreta Luciana, così lontana dai clichè delle sue coetanee (finalmente al cinema una adolescente non stile Lolita ma solida, vera nella sua fisicità goffa e sgraziata) è veramente uno dei punti forti del racconto.

Accanto a questi innegabili pregi, alcuni difetti appesantiscono il film: troppi filmati d’epoca sulle missioni spaziali che alla fine rallentano la trama (praticamente un terzo del film), qualche recitazione un po’ affettata tra gli adolescenti, soprattutto quando si esprimono nel gergo tipico dei giovani comunisti; un finale un pizzico buonista e inconcludente, come se le frustrazioni dell’adolescenza si risolvessero in poco tempo e il lieto fine fosse d’obbligo, mentre nella realtà da certe delusioni è difficile tornare indietro, così come è difficile far accettare la propria diversità dagli altri, e alcune volte non ci si riesce mai, neanche da adulti.

Comunque, un esperimento interessante, uno sguardo lieve ed ironico su un mondo, quello dei ragazzi, che raramente riesce a trovare chi sa raccontarlo in maniera non edulcorata, non banale e superficiale.



Ciambellone Bicolore alla Ricotta, Caffè e Cocco

Ci ho preso gusto ai ciambelloni bicolori, ormai ho capito la tecnica: sono buoni e anche allegri. Questo impasto l'ho buttato giù così, calcolando le dosi ad occhio, e il risultato è stato perfetto, morbido e consistente, con un lieve sapore di caffè, cacao e cocco. Io ho fatto più consistente la parte scura, ma potete anche fare il contrario, la base bianca e il sopra nero, nel qual caso invertite le dosi.
Per una teglia a ciambella da 26 centimetri

300 grammi farina
180 grammi zucchero
3 uova
Mezzo bicchiere abbondante olio di semi
250 grammi di ricotta
2 cucchiai di strega
1 bustina di lievito

Impasto al caffè:
due tazzine piene di caffè espresso
3 cucchiai di farina
3 cucchiai colmi di caffè solubile
2 cucchiai di cacao amaro


Impasto al cocco:

4 cucchiai di farina di cocco.
2 cucchiai di latte

Battere le uova intere con lo zucchero, quindi aggiungere la ricotta, sempre montando, quindi l'olio, la vanillina, il liquore.

Mescolare lievito e farina, aggiungere a cucchiaiate sempre mescolando con la frusta elettrica.
Prendere una metà abbondante dell'impasto, ed aggiungere il caffè, 3 cucchiai di farina (il composto si allunga col caffè e bisogna stringerlo),il caffè solubile e il cacao.

Nell'impasto chiaro mescolare due cucchiai di latte e la farina di cocco.

Mettere in una teglia a ciambella da 26 centimetri l’impasto scuro, quindi a cucchiaiate mettere quello chiaro sopra, spolverare con zucchero a velo semolato.

In forno caldo, secondo ripiano dal basso, per 50 minuti a 180 gradi.


mercoledì 14 ottobre 2009

Cambi di stagione



Ed eccoci, da un giorno all'altro, nell'autunno.
Quest'anno ci è andata bene, tranne gli ultimi giorni l'estate sembrava non dovesse finire mai, ma il tempo è arrivato...non mi ricordavo un autunno così caldo da anni!

sabato 10 ottobre 2009

Di Poesia, dolcezze ed altri argomenti



Carissimi

finalmente ho finito di passare i pomeriggi sulle sudate carte. La visita guidata al Keast-Shelley Museum c'è stata, e posso tornare alla vita di tutti i giorni, un po' noiosa ma sicuramente meno impegnativa.




Devo dire che io sono un po' maniacale, per preparami alla spiegazione dell'appartamento in cui morì il poeta inglese John Keats, e che ora è sede di una Fondazione intitolata anche a Percy Shelley e a Lord Byron, ho studiato accuratamente per almeno tre settimane, andando a scartabellare vecchi libri, leggendo biografie in inglese e comparando le fonti.
Per fortuna ero in ferie, ed ho potuto dedicare molto tempo alla preparazione, addirittura troppo approfondita, per le due ore che poi sono andata a raccontare. Avrei potuto continuare per altre due, tranquillamente, solo che mi sarei persa le persone per strada, per cui ho dovuto stringere prima che il mio pubblico scappasse da tutte le parti.

Andai a vedere, per la prima volta, questo minuscolo ma commovente museo addirittura ai tempi del liceo, assieme alla mia classe capitanata dall'insegnante di inglese (che a quest'ora sarà bella e defunta, visto che a noi ci sembrava già una mummia 25 anni fa), la mitica Postacchini.
Curiosamente, ci sono tornata con una delle mie compagne di classe che erano con me all'epoca, che è appunto fondatrice dell'Associazione Culturale per cui ho fatto la visita...come è strana la vita, no?


Chi lo avrebbe detto a noi, adolescenti neanche troppo portate per lo studio, che un giorno saremmo tornate qui a spiegare noi questo luogo e le persone che vi hanno vissuto?
Invece fu proprio qui, tra queste sale, che scoprii la bellezza dei versi dei poeti romantici inglesi...rimasi affascinata (non solo io, anche la mia amica) soprattutto da Byron, di cui c'erano dei bei ritratti, tanto che ci comprammo le cartoline, su cui poi sospirammo languidamente - in fondo, cosa c'è di più romantico che sospirare su un ritratto di un giovane poeta morto centocinquant'anni prima?
Poco dopo mi comprai un bel volumetto sulla poesia romantica inglese, di cui appuntai parecchie poesie sul diario di scuola (eh lo so, noi del Classico siamo sempre stati un po' snob: va beh le canzoni di Vasco,va bene Baglioni, ma qua e là spuntavano versi in latino di Catullo, versi in greco di Saffo e Archiloco, versi in francese di Prévert...e mica cavoli!!).
Andavamo a spulciare le raccolte di poesia e le antologie di scuola per scegliere i versi più romantici, era comunque un modo per farsi un po' di cultura: un po' stile Bacio Perugina, ma sicuramente meglio delle nuove generazioniche non sanno neanche chi è Byron.

Questo volumetto ce l'ho ancora, con sottolineature e con le pagine un po' gualcite, la copertina slabbrata per le frequenti letture...sono andata a rileggermi un po' di questi autori, e mi sono sembrati ancora più belli e più commoventi, ora che ne conosco meglio la storia, le tragedie, gli amori e la morte precoce...pensare che Keats morì a 25 anni, Shelley a 29 e Byron a 36 -io che ne ho qualcuno più di loro- dà l'idea di quanto geniali fossero questi giovani che, in pochissimi anni, riuscirono non solo a scrivere tra le più grandi poesie della storia della letteratura, ma anche a vivere delle vita talmente romanzesche, che alla gente comune basterebbe un decimo...

Tra l'altro, ho fatto pure parecchie fotografie, per cui preparatevi che prima o poi, appena riordino le idee, vi faccio fare un tuffo nel Romanticismo di Primo Ottocento.



Ora, siccome non si vive di sola poesia, eccovi un altro dolcetto, non proprio romantico ma vi assicuro buonissimo...
Questo periodo sto saccheggiando i blog altrui, vedo delle cose talmente tanto invitanti che, invece di continuare a sperimentare ricette prese dai libri, preferisco fidarmi delle mie amiche Blogger.

Questa ricetta è di Marianna, del blog Menta e Liquirizia (non è la prima che le copio):
un ciambellone bicolore, bello da vedere e buono da mangiare!
E' anche di dimensioni abbastanza consistenti, per cui va benissimo una teglia a ciambella da 26 centimetri di diametro, viene bello grosso e bello alto.

La ricetta la trovate qui, io ho aggiunto solo due cucchiai di Strega e un cucchiaio di Caffè solubile assieme al Cacao.

Ciambella Bicolore al Cacao e Caffè

350 grammi farina
170 grammi zucchero
125 grammi latte (1 bicchiere)
mezzo bicchiere di olio
3 uova
1 bustina di vanillina
1 pizzico di sale
2 cucchiai di strega
1 bustina di lievito

Qualche cucchiaio di cacao amaro e poco caffè solubile
zucchero semolato per spolverare.

giovedì 8 ottobre 2009

Brunico la bella




Credo che queste imnagini parlino da sole...siamo a Brunico, uno dei paesi più colorati e graziosi della Val Pusteria! Un posto che pare uscito da un libro di favole, con stradine piene di fiori, di negozi eleganti, edifici dagli intonaci colorati, balconi in ferro battuto e aiuole curatissime.

lunedì 5 ottobre 2009

Il sapore antico delle Ciambelle



Siamo tornati alla normalità.

Le ferie sono finite, e così anche le visite di amici e parenti che si sono susseguiti a ritmo vertiginoso, la casa sempre lustra, il frigorifero pieno e dolci sempre pronti...insomma, alla fine è quasi un lavoro anche quello, anche se piacevolissimo!
:-)

venerdì 2 ottobre 2009

Uva fragola a colazione



Questi giorni di ferie sono volati davvero, più di due settimane che all'inizio mi sono servite soprattutto a rilassarmi, dopo un mese di lavoro durissimo e snervante...ho trascorso giorni abulici in cui veramente ho ridotto le mie attività mentali e fisiche al minimo, soprattutto a leggere e guardare dvd (lo ammetto, mi sono vista in quattro giorni due serie intere di Men in Trees, alla fine non sapevo più se ero tra le montagne dell'Alaska con orsi e procioni, oppure sul divano di casa mia tra due gatti ronfanti).

Poi ho cominciato a riemergere dal buio e a rientrare in una quotidianità più attiva, anche perchè ho avuto una marea di visite e di incontri che neanche nei tre mesi precedenti (pranzi, the e pomeriggi di chiacchiere).

Ho ripreso a fare un sacco di cose, compresa qualche ricettina.
Ho visto su parecchi blog questa stiacciata all'Uva che mi ha tentato non poco: un po' perchè non l'ho mai assaggiata, e anche perchè mi piacciono i dolci-non dolci, mescolare pasta di pane e frutta mi pareva una buona idea. Una volta, tempo fa, seguii una semplice ricetta che avevo letto da qualche parte, di una pizza con le mele...devo dire che la delusione fu parecchia, non sapeva di molto, esattamente di pane e mele, probabilmente andava condita o zuccherata, ma così come era proposta non sapeva di nulla.

Questa stiacciata invece ha la giusta alchimia di semi-dolce e pane, sicuramente ripeterò l'esperimento con le prugne.



Di ricette ne ho viste tante, e mi sembravano tutte ottime, a partire da quella di Sigrid, quella di Paoletta, poi Elga e infine Marianna.

Andatele a vedere tutte perchè meritano...

Il risultato che ho allegramente fatto di testa mia,confusa da tanta bellezza, soprattutto perchè la mia teglia di solito ospita una pizza di almeno 300 grammi di pasta di pane, però diciamo che ho seguito principalmente le indicazioni di Elga.


Pr la pasta, primo impasto
650 grammi (anche abbondanti) di farina 00
1 bicchiere e mezzo scarso di acqua tiepida
1 cubetto di lievito di birra fresco
un pizzico di sale
2 cucchiai di olio
2 cucchiai di zucchero

Secondo Impasto
100 grammi di zucchero
7 cucchiai di olio

800 grammi di Uva fragola, al netto

Impastare in una ciotola la farina con l'acqua tiepida in cui è stato sciolto il lievito di birra, aggiungere lo zucchero e l'olio, quindi un pizzico di sale.

Lasciar lievitare al caldo almeno due ore (io tre), in una ciotola coperta da un panno.

Quando l'ho ripresa si era gonfiata ma era rimasta un po' appiccicosa, per poterla lavorare ho dovuto aggiungere un po' di farina. In ogni caso mi è rimasta un po' più morbida rispetto ad una pasta di pane da pizza, forse ho esagerato con l'acqua.
Ho aggiunto l'olio e lo zucchero, e ho impastato di nuovo.

Nel frattempo ho lavato accuratamente l'uva fragola, sgranata e asciugata.
E poi ci ho messo due ore a togliere tutti i semi: purtroppo ho trovato un tipo di uva che aveva tre semi in ogni chicco, praticamente erano più grossi i semi che l'acino, per cui era impossibile metterla così.

Ho steso i 2/3 della pasta sulla carta forno, l'ho trasferita nella teglia e ho cosparso con la metà degli acini e spolverato con zucchero semolato.
Disteso col mattarello anche l'altro impasto, poi coperto con il resto degli acini.
Ho sigillato bene i bordi con lo strato sottostante, più grande, quindi spolverato di nuovo di zucchero e condito con un filo di olio.

In forno a 200 gradi, terzo ripiano dal basso per circa 35 minuti.


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