I miei viandanti

martedì 27 luglio 2010

In partenza



Sto facendo i bagagli.

Vestiti, mucchi di magliette, pantaloni, scarpe e biancheria in ordine sparso, in attesa di essere sistemati in bell’ordine nelle valigie aperte, sotto lo sguardo preoccupato dei gatti, che presagiscono la partenza imminente e cominciano ad elaborare progetti di fuga per non farsi portare dai cuginetti compagnoli:. 

Come si fa a conciliare la felpa pesante della montagna con il costume da bagno per la campagna assolata? L’anno scorso partimmo con le valigie gonfie di maglioni, scarponi da montagna, calzini di lana e pigiami invernali, quest’anno una via di mezzo: innanzitutto  in Abruzzo non fa  freddo come in Trentino (dormire in pieno agosto avvoltolati dentro il piumone di piuma, ma si può?!) però comunque  la sera tira una giannetta da golfino e cioccolata calda, mentre in Toscana farà molto più caldo, e poi nell’agriturismo c’è anche una piscina, non grande ma splendidamente incuneata tra dolci colline, come una piccola gemma turchese nei  rigogliosi campi  della Maremma.

Non sono una che si porta tutta la casa dietro, questo no, ma con gli anni e l’esperienza ho capito che non va bene neanche partire con le mutande contate, e soprattutto non mi abbandona mai un bel sacchetto con tutte le pillole e pomate che potrebbero servire: antidolorifici, aspirina, antifebbre, anticolica, antiherpes, pomate varie e un bel pacchetto di cerotti, insomma, un campionario completo contro ogni possibile malattia (anche se vado in una regione provvista di farmacie, ma vuoi mettere la sicurezza di portarsi tutto dietro?).

Quando partivo con lo zaino in spalla, allora sì che le mutande erano contate, così come tutto il resto: per il mitico Interrail in Scandinavia (quanto tempo, Pina mia, quanto?!) avevamo fatto il famoso zaino a perdere: cinque paia di mutande, tre paia di pantaloni, cinque magliette, due paia di scarpe (quell’anno andavano quelle scarpe di camoscio coi buchi modello bimbo anni Quaranta, rigorosamente nei colori beige e bluette, poi non sono andate più di moda, chissà perché), due maglioncini, un giubbottino imbottito, l’ombrello e poco altro. D’altra parte,  tenersi incollato sulle spalle  per un lunghissimo mese il vermiglio zaino Invicta nuovo di zecca, di cui peraltro ero fierissima, comunque non era uno scherzo, neanche alla nostra tenera età: bisognava davvero partire leggeri, eliminando tutto il superfluo e anche qualcosa di più.

Io, ad esempio, ebbi la malaugurata idea di abbandonare a casa il sacco a pelo, e quella fu davvero una pessima, pessima idea, di cui mi sono pentita ogni gelida notte di quel terribile, meraviglioso mese a spasso per le terre nordiche.





Lo zaino a perdere implica lo stivaggio delle  cose peggiori del proprio guardaroba, quelle che, lavate alla meno peggio con un pezzetto di sapone di marsiglia  mezzo sciolto nella  sua ammuffita bustina di plastica, dentro i microscopici lavabi sputacchiosi degli ostelli, vengono messe un numero di volte scrupolosamente conteggiate e quindi abbandonate senza pietà: una vera e propria scia di mutande, calzini e magliette sporche che abbiamo seminato per buona parte dell’Europa (nell’ordine Belgio, Olanda, Danimarca, Norvegia, Svezia, Germania, Inghilterra passando per la Francia, tutto via treno: ve li cito solo per farvi invidia, lo ammetto).

Alla fine forse esagerammo, visto che  siamo tornate con addosso l’ultimo paio di mutande e l’ultima maglietta puzzolosa, sulle spalle stanche  lo zaino quasi vuoto, sporco e vissuto, rigorosamente con le scarpe e il bicchiere appesi dietro perché faceva tanto viaggiatrice incallita  e quindi strafiga, esattamente come ci sentivamo  noi al ritorno dalla grande avventura.

Eliminato tutto il superfluo, in quel caso anche qualsiasi prodotto di bellezza, tipo creme idratanti, solari (va beh, quello proprio non ci sarebbe servito, visto che abbiamo viaggiato un mese sotto la nuvola di Fantozzi), crema per le mani, trucco, salviettine struccanti, spazzole, phon (anche questo, tragico errore), cottonfiocc, pinzette per le sopracciglia e tutti gli altri ammennicoli che ci portiamo noi donne: siamo partite con un beauty case decisamente spartano che neanche una suora di clausura, uno shampoo, un bagnoschiuma, un pettine, al massimo una limetta per le unghie e il deodorante.

Si potrebbe obiettare che tanto avevamo la bellezza dell’asino, ma con molta sincerità devo ammettere che non era proprio così: sostenere il confronto con le scandinave non sarebbe stato facile comunque, ma noi  partivamo svantaggiate in partenza,  vi assicuro che non c’è stato uno di quegli strafighi biondi che ci abbia degnato di uno sguardo, sigh!






Per noi era difficile competere  con ragazze longilinee biondissime con gli occhi azzurri, ma anche per i maschietti italiani la lotta era assolutamente impari: quando si vedeva un gruppetto scalcinato di ragazzi  scuri, bassi e traccagnotti lasciare una lunga scia di bava dietro alle bionde longilinee, si poteva star sicuri che erano italiani, e questo malignamente ci consolava, almeno un poco.

Anche in quel caso avevo un sacchetto con le medicine ma piuttosto striminzito, nell’ordine: antispasmina colica, che ci servì a carrettate (ancora ricordo la faccia di Pina alla stazione di Berlino, dopo aver bevuto dell’acqua locale…), aspirina e qualche cerotto. Forse ci si ammala  di meno, a venticinque anni…

In Russia invece, una delle estati successive, la sorella di Pina doveva assolutamente trovare una certa medicina, di quelle che hanno effetti  immediati e consistenti sui movimenti intestinali (una purga, insomma): armata di piccolo dizionario italiano-russo si arrischiò a chiederla in una farmacia di Mosca, indicando la parolina in cirillico.

Ovviamente anche  le istruzioni erano in cirillico per cui il primo problema fu: era davvero una purga, o chissà cosa altro aveva capito la farmacista (che non parlava una parola di nulla, tranne il russo)? Secondo problema: quando farà effetto, a breve o a lungo termine? Il rischio era di rimanere confinati in albergo fino allo svelamento del dilemma…

La mattina successiva dopo aver  osservato a lungo e con una certa apprensione, tutti e tre,  la pilloletta azzurra che assomigliava ad una Zigulì,  Amanda si decise a mandarla giù, confidando nel fatto che fosse davvero una purga e non, chessò,  la pillola del giorno dopo oppure un vermifugo per cani. Sempre tutti e tre condividemmo un’attesa trepidante sul risultato della sperimentazione, si sa che in questi casi la solidarietà è d’obbligo, vivendo gomito a gomito 24 ore su 24 nella stessa stanza e nello stesso bagno:  per fortuna l’esito fu immediato ed efficace,  e noi potemmo uscire allegramente per la città senza timore di corse improvvise e improcrastinabili della nostra amica negli austeri gabinetti sovietici.

Va beh, sono partita dai bagagli e sono finita a parlare di purghe sovietiche!





Vi lascio con alcune belle immagini del viaggio in Abruzzo di due anni fa: spero di fare anche stavolta delle belle fotografie, forse un po’ ripetitive perché i posti, più o meno, sono sempre gli stessi ma chissà, a volte si vedono le stesse cose con occhi diversi, scoprendo qualcosa di nuovo e inaspettato anche in luoghi che si pensa di conoscere bene.

Allora, arrivederci alla metà di agosto, se non riesco a connettermi prima per qualche notiziola veloce o qualche anticipazione estemporanea delle mie vacanze (confido sui potenti mezzi di mio marito)!

venerdì 23 luglio 2010

Ciambella all’Uvetta al profumo di Limone con bagna al Miele

ciambella1

Eccoci arrivati anche a fine luglio, praticamente alla vigilia delle vacanze.

In realtà, per me questo luglio è scivolato così, come non fosse mai stato veramente vissuto, come un'interruzione della vita vera.
Sono passate quattro settimane dall'operazione, sto decisamente meglio anche se con tutte le precauzioni del caso, e profondamente annoiata.
In queste tre settimane di arresti domiciliari ho fatto ben poco, tranne riposarmi, leggere moltissimo, guardare molta più televisione del solito: d'altra parte, la convalescenza non è certo un divertimento, si aspetta solo pazientemente che il corpo aggiusti le ferite, e che si riprendano le forze.
Ora spero di svagarmi un po', visto che all'inizio della prossima settimana facciamo le valigie ed andiamo in Abruzzo: non credo che farò delle vacanze molto attive, ma sicuramente cambiare aria e ambiente mi aiuterà a distrarmi, sono veramente contenta di muovermi da Roma.
Ed ecco un dolcetto semplice semplice, ma buonissimo, che ho fatto l'altro giorno, sfidando le temperature tropicali di questi giorni!

Questa ciambella la dedico alla carissima Donatella, che per il mio compleanno ha pensato a tante cose deliziose per la cucina, ben conoscendo la mia passione per stampi da dolci e così via, tra cui uno stampo da Kugelhupf che ho inaugurato subito. E’ uno stampo antiaderente, da cui il dolce si è staccato benissimo, al contrario di un vecchio stampo di alluminio responsabile di un paio di disastri (una torta e un budino) che verrà archiviato senza rimpianti, oppure andrà a decorare le pareti della cucina, assieme a vecchissime teglie di rame in cui mia nonna cuoceva i suoi dolci, qualcosa tipo cinquant’anni fa.

Avevo in mente di utilizzare una ricetta presa dal Ricettario PaneAngeli, in cui c’era anche il burro, dimezzando le dosi per adattarle allo stampo.
Non so voi, ma io ho veramente un pessimo rapporto col burro: innanzi tutto non mi piace moltissimo il sapore, nei dolci, soprattutto se è tanto. E poi gli impasti mi vengono sempre un po’ torbidi e grumosi, chissà perché, mai lisci come quando ci metto olio o ricotta.

In ogni caso, stavolta ho provato a battere prima le uova e poi aggiungere il burro morbidissimo: il risultato è stato catastrofico, nel senso che la frusta elettrica ha cominciato a far volare schizzi dappertutto e l’impasto è impazzito, riducendo in due secondi la cucina come un campo di battaglia.

La poltiglia gialla e grumosa non ne voleva sapere di diventare un impasto decente, allora ho buttato tutto e ho ricominciato daccapo, facendo di testa mia per le dosi e sostituendo il burro con l’olio.
Il risultato è stato perfetto, un dolce morbidissimo, bello alto e dal gusto delicato.

Io l’ho cotto in questo bello stampo e quindi l’ho capovolto, ammorbidito con una bagna di miele e liquore e decorato con confettini di zucchero colorato: se non volete fare la bagna, decoratelo solo con lo zucchero a velo, rimane morbido comunque.

Se volete farlo in uno stampo a ciambella normale, orientatevi su una misura tipo 20/22 centimetri, altrimenti rischia di venire troppo basso.

ciambella2

Ciambella all’Uvetta al Profumo di limone con bagna al Miele

Per uno stampo da Kugelhupf di 18 centimetri di diametro:
2 uova
250 grammi farina
125 grammi zucchero
75 ml latte
100 grammi olio evo
succo e buccia di 1 limone
1 bustina di Lievito PaneAngeli
Uvetta

Per decorare: due cucchiai di miele e Strega
Confettini colorati

ciambella3

Battere le uova intere con lo zucchero, fino a farle diventare belle gonfie (con la frusta elettrica).

Aggiungere il latte, l’olio, il succo e la buccia grattugiata del limone.
Aggiungere la farina mescolata al lievito, quindi l’uvetta.
Imburrare ed infarinare uno stampo antiaderente da Kugelhupf, versare l’impasto ed infornare a 180 gradi sul secondo ripiano dal basso per 50 minuti

Quando si è freddata la torta, rovesciarla.

Diluire due cucchiai di miele con un goccio di Strega (o acqua) e sciogliere qualche secondo sul fuoco, quindi spennellare il dolce col miele, e cospargerlo di confettini colorati.

In alternativa, se non volete bagnarlo col miele, spolverarlo semplicemente di zucchero a velo.

martedì 20 luglio 2010

Marmellata d'estate e progetti vacanzieri


Ed eccomi di nuovo qui, dopo le bellezze artistiche di Siviglia torniamo a qualcosa di più concreto!

La convalescenza prosegue, meno devastante di quanto pensassi ma comunque lunghetta: sono ancora confinata a casa, un po' ammuffita ma con la speranza di poter evadere presto, anche perchè la mia facoltà di non annoiarmi da sola viene quotidianamente messa a dura prova, visto che siamo, tutto il giorno, io e i gatti, i gatti e io...

Avevamo programmato, in tempi non sospetti, una bella vacanza nelle acque cristalline della Croazia, tanto per fare una cosa nuova: è dal viaggio di nozze sul Mar Rosso che non vediamo un bel mare (quello di Fregene non conta, credo), avevamo proprio voglia di una vacanza all'insegna del sole e del mare, ma tant'è, per quest'anno è andata così.
Abbiamo ripiegato, per forza di cose, su due mete tranquille, vicine e fresche nonchè a noi ben note, visto che ci andiamo spesso.

Partiremo prima per l'Abruzzo, la stessa meta del 2008, un paesino ameno tra Scanno e Pescasseroli: quest'anno avrò la scusa di non poter neanche scarpinare in montagna, mi accontenterò di tranquille passeggiate stile nonnetta in vacanza!

Poi ci dirigeremo verso il sud della Toscana, un altro posto che conosciamo molto molto bene ma a cui torniamo ogni volta molto volentieri. Anche nei posti meno conosciuti, meno turistici e forse anche meno belli, in questo caso la Maremma (non lontano da Saturnia) si trova comunque un paesaggio gradevolissimo, bei paesini aggraziati, un mangiare eccellente...



Questa marmellata di Fichi, perfetta per la stagione, non è opera mia, visto che non ho contribuito minimamente a farla, ma solo a mangiarla: nel giardino dove vivono i miei genitori, in collina, c'è un bell'albero di fichi, che ogni anno ci regala generosamente questi frutti polposi e dolcissimi. Tanti si consumano freschi, e col resto mamma e papà confezionano questa splendida marmellata.

E' talmente buona che mio marito (che detesta questo frutto meraviglioso, vai a capire perchè) l'ha mangiata allegramente senza accorgersi che era marmellata di fichi e, una volta saputolo, ha continuato a papparsela, il che la dice tutta sulla sua bontà.
Questa è la ricetta personale di mamma, ci sono anche altri metodi per farla ma mi pare che funzioni benissimo con queste dosi.


Marmellata di Fichi

Fichi maturi
300 grammi di zucchero al chilo
mezzo litro di acqua al chilo
succo di limone (a piacere)

Facoltativi: una mela a pezzetti

Lavare e sbucciare i fichi, metterli in una pentola col fondo pesante con l'acqua e cuocere.
Nel frattempo lavare e sterilizzare i vasetti e i coperchi, facendoli bollire qualche minuto in acqua bollente, assieme all'imbuto e a tutto quello che serve per la manifattura della marmellata.

Far asciugare tutto su un telo pulito.

Quando la marmellata comincia a stringersi, togliere la pentola dal fuoco e pesare il contenuto (prima si pesa la pentola pulita e vuota, ovviamente, e la differenza tra il peso a vuoto e il peso a pieno sarebbe il peso della marmellata).
Aggiungere 300 grammi di zucchero per ogni chilo di marmellata.

Rimettere sul fuoco e lasciar stringere fino alla consistenza desiderata, calcolando che comunque molto densa è difficile che venga, a meno di non aggiungere una mela a pezzetti o della pectina.

Toglierla dal fuoco e invasare subito, facendo attenzione a pulire bene il bordo dei vasetti.

Capovolgerli su un piano e lasciarli a testa in giù per una mezz'ora, quindi rimetterli in posizione normale e lasciarli raffreddare naturalmente.

Quando sono freddi controllare che le capsule abbiano fatto il sotto vuoto.

sabato 17 luglio 2010

Il Museo di Bellas Artes di Siviglia


Di solito, quando si arriva in una città sconosciuta, tutta da scoprire, si fa un itinerario di massima da seguire, soprattutto se si tratta di una città grande e non si hanno tanti giorni a disposizione. Ci sono poi delle città che non basta una visita, e neanche due, e alla terza ti rendi conto che ne hai vista una minima parte come ad esempio Parigi di cui, dopo cinque visite, mi mancano ancora tantissimi musei.

Roma è una di queste, anzi: visto che ci abito da una vita, ogni volta mi sorprendo dalla quantità di musei, siti archeologici, pinacoteche e chiese della mia città. Avendo fatto poi degli studi specifici, prima all'Università e poi al Corso di restauro, dovrei anche essere una privilegiata, eppure ci sono ancora tante cose che devo vedere, oppure che ho visto tanti anni fa e che vorrei riscoprire con gli occhi della maturità.

Siviglia no, Siviglia è una città piccola, almeno in confronto a molte capitali europee: in effetti non è una capitale, tutt'al più capoluogo di regione: città bella e affascinante, ma sempre di dimensioni ridotte.
Anche per quanto riguarda i musei, Siviglia ne ha di belli ma sono pochi, e piccoli: non avevo alcuna intenzione, in cinque giorni di visita, di entrare nei musei ed invece alla fine li ho visti tutti e cinque, proprio perchè il tempo alla fine c'è stato.

Di ritorno da Cartuja, ho imboccato la lunga Calle Alfonso XIII, una bella e animata via che divide la Macarena da Santa Cruz e proprio all'inizio, dopo questa piazzetta in cui un modernissimo bar si affianca graziosamente ad una pittoresca chiesetta gialla e bianca, si apre una piazza ombrosa, su cui affaccia il seicentesco edificio del Monaster de Mercede Calzada: nel 1835 in queste sale venne allestito il Museo de Bellas Artes, che contiene una corposa collezione pittorica del Barocco sivigliano, per la maggior parte proveniente da monasteri e altre collezioni ecclesiastiche e, solo in tempi più recenti, ha visto l'aggiunta di preziose tele e manufatti dell'Ottocento e del Novecento, sempre di artisti andalusi.




Già l'entrata, dalle pareti coperte di bellissime ceramiche sivigliane, e i tre chiostri su cui si affacciano le sale del Piano terra, ci trasportano immediatamente nel Barocco sivigliano: in queste sale al pianterreno è esposta una preziosissima collezione del famoso Murillo (uno degli artisti più illustri nati a Siviglia), le cui pessime condizioni di luce purtroppo mi hanno impedito di immortalare per voi.




Al primo piano l'esposizione comincia con opere del XV secolo, passando per altri illustri artisti barocchi sivigliani, come Zurbaràn e Valdés Leal.


Queste sono le prime sale della collezione che va dal Settecento fino alla pittura moderna, in cui ritratti di dame in abbigliamento tipico con sontuose mantiglie si alternano a paesaggi, a scenette di genere ambientate in interni, così tipiche della pittura settecentesca.





La pittura sivigliana non ha assolutamente nulla da invidiare alla contemporanea francese e italiana, almeno dal punto di vista della bellezza, anche se è molto meno famosa e conosciuta nel resto del mondo, e presenta dei tratti caratteristici introvabili altrove (Ritratto di Gustavo Béquer, di Dominguez Bècquer, 1862).



Guardate ad esempio questi Baile por Bulerìa e Baile Por Sevillanas  di Garcìa Ramos, 1884, in cui ballerini nei costumi tradizionali si esibiscono sullo sfondo di locali caratteristici: una scena che si ripete esattamente adesso, nei moderni tablaos sparsi per tutta l'Andalusia.



Una splendida dama con sontuosa mantiglia avorio, peineta e ventaglio, abbigliata con stoffe cangianti i cui riflessi argentei la fanno emergere dall'oscurità, in cui si intravedono delle figure vestite da torero che le fanno da enigmatico fondale.


Ed ecco la paesaggistica ottocentesca: questa è la fangosa sponda di Triana (di Sànchez Perrer) prima della costruzione dei muraglioni, quando il quartiere doveva essere ancora il caratteristico e povero barrio gitano, e ancora sotto il barrio di Santa Cruz e la Torre del Oro visti dalla sponda opposta di Triana, forse proprio dal ponte Sant'Elmo.



Altro tema tipico sivigliano è l'arte della corrida: in questa grande tela "La muerte del maestro"  (José Villegas Cordero, 1910) i colori luttuosi della morte e del dolore si mescolano alla ricchezza dei costumi, all'oro delle decorazioni che rubano la scena al morto che giace in penombra, quasi dimenticato e sopraffatto da tanto sfarzo.





Un altro argomento caratteristico della pittura locale è quello delle feste, così care alla città, come questa " Sevilla en fiesta"  , particolare, (Bacarisas Gustavo, 1915) in cui le tre dame in costume tradizionale, dipinte in grandi pennellate pastose e sfumate,emergono luminose ed evanescenti da una città notturna e tenebrosa, quasi una citazione dei sontuosi ritratti su sfondo scuro di dame dei secoli precedenti (vedi ad esempio Goya) ma ben consapevole dei nuovi modi pittorici provenienti dalla Francia.


E che dire di questi splendidi ritratti o della graziosa fanciulla di marmo, anche lei pronta per danzare ad una fiesta cittadina?
I bei costumi tradizionali sono gli stessi che, ancora oggi, le donne sivigliane indossano nelle Ferias e le danzatrici sui tablaos per ballare il flamenco:  vestiti ampi e ricchi di volants, scollature ornate di frange, rose e pettini nei capelli acconciati a chignon, mantiglie e scialli di seta, un'eleganza senza tempo che rimane inalterata da secoli; la prima tela è di Diego Lopez, Sevillana en su patio, 1915); la seconda è di García Ramos Joseph, Malvaloca, 1912.




L'ultimo quadro che ha colpito la mia immaginazione è stato questa bella scena d'interno di Rafael Martinez Diaz, "Escena de Familia" : una camera semplice dalle pareti chiare, rischiarate solo dalla luce rarefatta di una finestra: le quattro bambine sono ritratte ognuna in una posa diversa, attorno ad una tavolo semplicemente imbandita (due mele, un piatto di pesce, una brocca e del pane).
Sono gli sguardi tristi, come rassegnati eppure lucidi (soprattutto della ragazza con la coda) a colpire lo spettatore, invitato suo malgrado ad assistere al magro ma dignitoso pasto.



Per chi volesse approfondire:
Museo de Bellas Artes

Altri racconti di Siviglia su questo blog:

Arrivo in città

Calle de Las Sierpes, Flamenco, Scarpe e ventagli

Il Barrio di Santa Cruz

Il Barrio gitano di Triana

I Palazzi reali

La Macarena

Lungo le sponde del Guadalquivir

La Cartuja

mercoledì 14 luglio 2010

Giorni casalinghi


Le giornate si srotolano lente, faticose e umidiccie per il caldo appiccicaticcio che imperversa su Roma, trasformandola in un inferno di cemento bollente e aria incandescente: il sole impietoso non riesce ad asciugare l'umidità, quella sensazione sgradevole che pare di camminare dentro una giungla tropicale, il corpo che aggiunge liquido all'aria liquida, ma senza il riparo dell'ombra delle foreste.

Difficile uscire senza ridursi uno straccetto bagnato e ansimante, in questi giorni.

Tutto questo non mi rende più piacevole l'esistenza, per cui passo molte ore della giornata a vegetare sul divano, immersa in un topore risanatorio. Vorrei fare tante cose, riprendere delle attività interrotte, leggere di più, ma proprio non ce la faccio.
E' ovvio che il fisico deve riprendersi da tutti gli strapazzi, dal massiccio bombardamento di medicinali, dai dolori e dai punti che cominciano a sciogliersi, e soprattutto a tornare a valori normali, quelli che ti permettono di stare in piedi senza spossatezza.
Il risultato è che sto sempre a casa, anche perchè cammino poco e faticosamente, e non voglio in nessun modo affrettare le cose in maniera imprudente, visto che ho l'incubo che i punti saltino, che qualsiasi sforzo rimetta in discussione l'esito dell'intervento.




Mi mancano le mie passeggiate, ma tanto con questo caldo uscirei comunque poco, anche da sana: l'unico che verde che vedo è quello delle piante dei miei davanzali, che in questi giorni sono smorticce e accasciate, sotto il sole impietoso che le cuoce dall'alba fino all'ora di pranzo.

Sono una giardiniera frustrata: una di quelle che adora piante e giardini, a cui piace infilare le mani nella terra e trafficare con fiori e vasi ma, non avendo nè giardino nè terrazzo, mi devo accontentare delle piante sui davanzali e alcuni cestini appesi fuori dalle finestre.

Che poi sembra facile avere dei davanzali belli come quelli del Trentino, col clima stupido di Roma: i gerani, quelle cascate meravigliose di gerani edera o anche i globi colorati di quelli zonali, a Roma sono impossibili da coltivare, a causa delle larve importate dall'Africa che si insinuano nei gambi e ne fanno strage.








Ci ho provato svariate volte, negli ultimi anni, a ripiantarli, anche avvolgendoli sotto una nube di antiparassitario, cosa che comunque trovo poco eco-compatibile, ma niente: belli e rigogliosi appena piantati, dopo due settimane cominciano ad appassirsi, con i pallini neri nei boccioli appena spuntati, e i bruchini verdi appesi sotto le foglie, e allora addio. All'inizio pensavo che le graziose farfalline marroni che li attorniavano fossero delle semplici farfalle, e invece sono le killer che li infettano: ci ho rinunciato, punto e basta.

Quest'anno, per cambiare, ho provato a piantare un paio di quelle piante dai rami a tralcio e i fiori rossi vagamente simili all'hibiscus, ma è stato un disastro; sui miei davanzali formiche non ce ne sono mai state: con mio sommo raccapriccio siamo stati invasi prima da colonie di formichine minuscole, che si sono infilate anche ngli stipiti delle finestre e hanno colonizzato spavaldamente la mia cucina.
Sconfitte quelle, sono venute alla carica le cugine grandi, dentro e fuori casa, prima di accorgermi che erano attirati dagli afidi verdi attaccati ai lunghi rami di queste piante, esplosi a centinaia in pochissimi giorni. Le formiche, di per sè, non sono pericolose per le piante, ma per la mia cucina decisamente sì!

Ho dovuto togliere tutto, e le formiche sono scomparse pochi giorni, per poi tornare minacciosamente alla carica sugli afidi neri comparsi improvvisamente sull'edera, prontamente bonificata.
Insomma, è una lotta continua contro i parassiti: le uniche piante che sembrano reggere sono le petunie, anche se al caldo i delicati fiori si riducono degli straccetti striminziti, forse gradirebbero un clima meno inclemente, e ovviamente le piante grasse.




Questo invece è un bell'esemplare di Orchidea Phalaenopsis, l'unica pianta che cura mio marito (le altre possono anche morire sotto i suoi occhi, e neanche se ne accorge).E' stata comprata l'estate scorsa e, dopo aver vegetato tutto l'anno dietro i vetri della finestra, è esplosa con un tralcio di fiori perfetti, petali carnosi rosa pallido screziati dai delicatissimi ricami viola.

Spero di tornare a vedere presto qualche altra cosa, oltre le piante del davanzale, magari in un posto fresco e ombroso, staremo a vedere come va la convalescenza...

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