I miei viandanti

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lunedì 28 giugno 2021

Il tempo lento

 


Tanto, tantissimo tempo. E non valgono le scuse del tempo che manca, le giornate passate a correre tra un autobus e l’altro, la Dad, i tanti impegni rimandati, il Covid. 

Forse tutto ha la sua evoluzione, e un blog ormai è una cosa sorpassata, morta, ridondante. Almeno, lo sembra, paragonato ai nuovi social che imperano: rapidi, veloci, istantanei. Già Facebook sembra un dinosauro, ci stanno solo quelli di mezza età (appunto), i vecchi compagni di scuola che si ritrovano, parenti e amici di vecchia data. I ragazzi, quelli stanno da un’altra parte. Forse anche Instagram, comincia a star loro stretto, il social che è diventato una vetrina usa e getta di fotografie bellissime di posti bellissimi, immagini talmente tanto perfette che ti chiedi quale attrezzatura abbiano, per fare foto belle così.  E invece no, non è la stessa cosa scrivere sui social e sul proprio blog, perché scrivere è una cosa lenta, una riflessione, uno scavare nei proprio giorni e nei propri pensieri e cercare di metterli in una forma comprensibile per  i (pochi) pellegrini di questa foresta. E anche leggere un post è una cosa che implica un tempo lento, un’attenzione a quello che si legge o che si guarda. 

martedì 15 aprile 2014

I ricordi del cuore



Carissimi, come va?

I giorni scorrono veloci, e alla fine mi accorgo sempre ne sono passati decisamente troppi dall'ultimo post, ma la vita vera ha sempre il sopravvento, ovviamente, e non è facile ritagliarsi degli spazi, oppure a volte, pur avendo del tempo libero, preferisco vedere un bel film o leggere un libro piuttosto che armeggiare col computer.

venerdì 9 gennaio 2009

La strada dei passi perduti


Stavo parlando giusto l’altro giorno con mia madre degli ultimi post scritti, quelli rievocativi di fatti e atmosfere di trent’anni e più fa: se io ho ricordi di bambina, lei ne ha di adulta, quindi sicuramente più oggettivi, edulcorati da qualsiasi nostalgia infantile.
Commentava appunto di come ne parlassi, di un periodo oscuro ma intrigante, avvolto in un alone magico, quasi leggendario, ed è ovvio che per me sia così, visto che i miei ricordi sono filtrati da una visione del mondo ancora irrazionale, in cui le paure e le insicurezze dell’infanzia si mescolano ad un mondo esterno ancora tenebroso, che pure viene ricordato con rimpianto, forse perché crescendo si acquista razionalità ma si perdono i sogni.


Prendo spunto dalla puntata di Romanzo Criminale andata in onda due lunedì fa per commentare invece altri fatti della mia vita, più tardi in ordine temporale: la sesta puntata è ambientata tutta dentro il famoso carcere giudiziario di Regina Coeli, su Via della Lungara, una delle strade più caratteristiche di Trastevere e una di quelle a cui sono particolarmente legata. Colgo l’occasione per ripercorrerla insieme a voi, seguendo un sentiero nel tempo e nella memoria che mi porta piuttosto lontano, a metà circa degli anni Ottanta.

Questa lunga strada ha un’origine affascinante, si tratta infatti di una delle due antiche vie parallele al Tevere fatta costruire da Giulio II all’inizio del ‘500; la Lungara univa Trastevere dalla Porta Settimiana alla Porta Santo Spirito, praticamente al Vaticano, era un tracciato importante di scorrimento soprattutto per i pellegrini che dovevano andare a San Pietro, anche se ora ci sembra niente più che una stradicciola caratteristica, pavimentata a sanpietrini.


L’innalzamento dei maestosi muraglioni del fiume alla fine dell’Ottocento ha isolato ancora di più questa lunghissima strada, conferendole un aspetto un po’ abbandonato, quasi suburbano.


Da Porta Settimiana, nella stradina dell’Orto Botanico (una delle meraviglie di Roma che pochi conoscono) c’è un altro luogo di paura e desolazione, almeno per me: il Centro di Vaccinazione del quartiere. Ogni volta che venivo portata in quella strada con le cancellate di Palazzo Corsini (rimaste impresse indelebilmente nella mia piccola mente) sapevo che mi aspettava un infausto destino, a cui era inutile opporsi. Nello stesso complesso ora hanno impianto un Centro di Igiene Mentale che, insomma, magari mi sarebbe stato più utile, col senno di poi.


Dalle numerose traverse di Via della Lungara si vede che siamo proprio ai piedi del Gianicolo.


Poco prima di Regina Coeli si trova un altro austero complesso, l’ex Monastero di Santa Croce della Penitenza, denominato nell’Ottocento Istituto del Buon Pastore e allargato verso Via della Penitenza (anche i nomi delle vie sono piuttosto indicativi), che accoglieva ex carcerate e bambine povere.

Dal 1950 al 1970 venne adibito a casa di rieducazione per donne perdute, e poi venne definitivamente chiuso. Dopo decenni di totale abbandono, oggi presenta un aspetto piuttosto fatiscente, però è stato parzialmente recuperato come Casa Internazionale delle Donne, sita proprio accanto alla chiesetta omonima.



D’altra parte, poco più giù, verso gli archi di Porta Portese, si estende l’enorme e imponente complesso di San Michele, che nel Seicento aprì come Ospizio per orfani e bisognosi , per poi diventare carcere minorile. Abbandonato anche lui per anni, è stato totalmente ristrutturato in anni recenti, per diventare Ministero dei Beni Culturali.
Questo per dire che Trastevere, diversamente dal quartiere festoso e godereccio degli ultimi anni, nei secoli scorsi aveva un carattere molto più austero di adesso, e il tasso di delinquenza era piuttosto alto, proprio come in una borgata.


Il carcere vero e proprio si trova in un imponente isolato secentesco, due conventi divenuti istituto di detenzione solo nel 1881.



Da allora il quartiere ha sempre avuto un rapporto di odio-amore con l’istituzione carceraria di Regina Coeli, tanto che si diceva che non si era veramente trasteverini se non si saliva il famoso scalino d’entrata, di granito rosso.
« A Reggina Celi ce sta 'no scalino
chi nun salisce quelo nun è romano, manco 'n trasteverino »


Qualche anno dopo, Via della Lungara e Regina Coeli sarebbero state il mio percorso abituale, andata e ritorno, verso un’altra istituzione famosa, il Liceo Classico Virgilio.


Situato sulla sponda opposta del Tevere, sulla bellissima e fatiscente via Giulia, il percorso speculare a via della Lungara ma nel quartiere limitrofo, il complesso presenta una parte secentesca, quella che dà sulla via Giulia, e una parte moderna, dall’architettura di stampo fascista che risale al 1938 sul fronte verso il Tevere.


Regina Coeli e il Virgilio sono uno di fronte all’altro, ma sulle sponde opposte del Tevere, e guardandoli ci si chiede, almeno basandosi sull’apparenza, quale sia il carcere e quale il liceo. Dalle finestre dei bagni vedevamo i detenuti che ci facevano ciao ciao con la manina dall’altra parte, e non so se ci sentivamo più in galera noi o loro.


Questa bruttezza esterna della costruzione è rivelatrice, in qualche misura, del modo con cui ho vissuto gli anni di scuola: una specie di reclusione auto-imposta, un periodo che, quello sì, non ricordo con alcun rimpianto, se non con la felicità di esserne sopravvissuta abbastanza indenne, o almeno contenendo i danni in maniera accettabile.



Tutta questa immersione negli anni che furono, e comunque stiamo parlando di venti e passa anni fa, a causa di eventi di questi giorni.

Grazie a Facebook la mia amica Teodora ha recuperato mezza classe del liceo, e già è una cosa buffa che ci si trovi metà III F ed io invece non abbia trovato nessuno dei miei anni di Università (quelli sì che li ricordo con nostalgia, ah che bel periodo).
Questa sua accorata ricerca è sfociata in una riunione rievocativa, tipo il film Compagni di Scuola, solo che si era partiti in tanti e alla fine siamo riusciti a fare una cosa ristretta, almeno per il momento. Premetto che la nostra classe non ha mai brillato come comunione e fratellanza, anzi, direi che eravamo una mescolanza male assortita di persone che, fondamentalmente, avevano ben poco da spartire. Questa diversità si è tradotta con la formazione di gruppetti che si frequentavano prevalentemente tra loro, come il famigerato trio Teodora-Pina-me, che ne ha combinate svariate ed è rimasto tuttora in auge, dopo venticinque anni di frequentazione.

Invece il pranzo è stato piacevolissimo, alla fine i venti e passa anni di lontananza sembravano essere molti di meno, direi che la maturità ci ha migliorato tutti. Potrebbe essere l'occasione per riscoprire delle persone che si credevano perdute per sempre, veramente una bella sorpresa.

Nondimeno, il fatto di aver ritrovato con tanta facilità molte persone del passato è stato comunque motivo di riflessione. Prima dell'incontro, infatti, mi è capitato di rimuginare una serie di considerazioni, su Facebook in generale e sui recuperi di persone e amicizie perse di vista da decenni, e ripassare per via Giulia è stato un vero tuffo nel passato, un dejà vu un po' malinconico alla ricerca di strade perdute, strade su cui si è camminato per anni, andata e ritorno, centinaia di volte, e che adesso sono del tutto fuori rotta, come i luoghi a cui portavano.

Non è un azzardo rivedersi dopo vent’anni? Uno, bene o male, ha una visione congelata alla maturità o comunque di anni lontani, come guardare una vecchia fotografia e vedere tutti sempre uguali, eternamente giovani…le persone che hai accanto cambiano, mutano, ma tu non te ne accorgi perché le hai sempre sotto gli occhi, anche tu cambi con loro e questo rende le tracce dello scorrere del tempo più lievi, quasi impercettibili, non solo sul corpo ma anche nel modo di essere.
Che effetto fa vedere delle persone che ricordi adolescenti, vent’anni dopo?
E soprattutto, che effetto fa vedere i segni profondi, quelli interiori, e i mutamenti sostanziali che non possono non aver segnato delle persone che passano dai venti ai quarant'anni, un cambiamento mica di poco.
Ognuno coi proprio grandi o piccoli fallimenti, con i problemi che nella vita prima o poi ti tocca affrontare, con i sogni abbandonati e anche le solidità conquistate, magari a caro prezzo. E quanto è visibile, dentro e fuori, il cammino percorso alla ricerca della consapevolezza di esserci, di esistere, di rappresentare una parte della realtà e non solo un puntino insignificante e invisibile come ci sembra di essere da adolescenti? Quali insicurezze si superano, e quali invece sopraggiungono con l'incalzare del tempo?

E' impressionante la facilità con cui si riescono a trovare le persone su quella che, in fondo, non è che una vetrina: si mette il nome, la foto, tutte le informazioni basilari, quelle che possono soddisfare la curiosità di qualcuno che non ti vede da anni: se sei sposato, single, dove lavori, se sei riuscito a laurearti, quanti amici hai, una fotografia possibilmente bella per mostrare come sei diventato...
Il che, da una parte, è bellissimo, perchè talvolta le persone si perdono di vista per circostanze accidentali, una scuola che si cambia, le lezioni all'Università che finiscono, il lavoro che si ricomincia da un'altra parte. Ti perdi gli amici senza una ragione se non quella della lontananza, gli impegni, la pigrizia, le telefonate che si fanno sempre più rade e poi finiscono del tutto.

Ci sono invece altre amicizie, magari vecchi amori, che finiscono in malo modo, magari con velati rancori, situazioni mai chiarite, anche se poi a distanza di tempo ti ricordi solo le cose belle, mentre quelle brutte, quelle che hanno fatto soffrire tendiamo a metterle in ombra, a dimenticarle.
Allora cominci a cercare nomi che emergono tenebrosi dal passato, persone che hanno lasciato anche cicatrici profonde dentro di te, ed invece sono lì, a portata di mano, di tastiera, e saresti anche tentato di inviare un messaggio, una frase, tanto per avere la soddisfazione di un cenno, di un riconoscimento, chissà, magari, dopo tanti anni, forse può far piacere...

Però, a mio avviso, bisogna non farsi trascinare troppo nè dai ricordi, nè dai rimpianti perchè, almeno nella maggior parte dei casi, se un'amicizia è finita, se un rapporto si è lacerato, un motivo c'era, e se una persona è sparita dalla tua vita per tanto tempo, probabilmente quella persona non ha alcuna voglia di essere ritrovata. Ci sono persone che hai dimenticato allegramente, senza rimpianti, altre invece che non riesci a lasciar andare, neanche nei ricordi. Bisognerebbe aver il coraggio di chiudere davvero, e di lasciarle andare.

Devo ammettere infatti che, dopo un entusiasmo iniziale, quando ho cominciato a veder spuntare come funghi persone dal mio passato, in un attimo di vigliaccheria ho avuto la tentazione di chiudere tutto e sparire nell'ombra, soprattutto perchè certe volte i ricordi non sono piacevoli, e magari ci sono periodi della propria gioventù verso i quali non si prova alcuna nostalgia, anzi, si è assolutamente contenti di essere sopravvissuti ed aver voltato pagina (il mio liceo è appunto uno di questi).

O anche perchè altre volte non si ha alcuna voglia di raccontare tutta la propria vita, di riassumere dieci o vent'anni in poche notizie scarne, e magari essere giudicati da persone che, in fondo, non sanno nulla di te, del tuo percorso, delle vie a cui sei arrivato ad essere faticosamente quello che sei, a fare quello che fai, ed è troppo lungo da spiegare e magari non hai alcuna voglia di farlo.
Poi, invece, ti accorgi di non essere l'unico ad aver fatto un percorso ad ostacoli, ad aver vinto alcune battaglie ed averne miseramente perse altre, che per nessuno la vita è stata allegra e senza pensieri, che tutti si sentono di aver conquistato a caro prezzo alcune cose, ed di aver rinunciato dolorosamente ad altre.

E allora ti sembra che, in fondo, non è andata poi tanto male.

Che in alcuni casi potevi fare di più, e meglio, che altre volte ti sei un po' accontentato, lasciandoti andare sulla scia degli eventi. Che, invece, per altre cose hai lottato e vinto. Che altre volte hai lottato, hai perso, però almeno ci hai provato. Ogni giorno mettendo da parte un pizzico di esperienza, di saggezza, un passo avanti sulla strada della consapevolezza.

Forse la vita, e la via della maturità, è proprio questa.

martedì 2 dicembre 2008

Romanzo Criminale, la serie

Invece di un film o un libro, stavolta voglio recensirvi una serie televisiva: io non amo la televisione, anzi, negli ultimi anni la guardo sempre di meno.
Preferisco i libri, ovviamente, ma anche un buon film in Dvd, oppure qualche telefilm o sceneggiato degli anni passati, sto cominciando a diventare un po’ nostalgica (ah, i begli sceneggiati di una volta!). Ora in Dvd si trova di tutto, e talvolta rivedo più volentieri delle cose degli anni scorsi che quelle che vanno in onda adesso.
Da quando poi hanno chiuso quelle due o tre serie a cui ero affezionata (soprattutto La squadra, di cui non mi sono persa una puntata: vorrei uccidere gli sceneggiatori che l’hanno chiusa in maniera affrettata e sciatta, per cominciarne un’altra che è solo la brutta copia della prima), praticamente il televisore è diventato un oggetto di arredo, nella libreria, muto e desolato nella sua bruttezza.

Quando uscì il libro di De Cataldo, mi piacque moltissimo: la storia, l’ambientazione (cavolo, io c’ero, nella Trastevere degli anni Settanta), la scrittura, la ricostruzione di quegli anni.
Davvero un bel libro, che mi ha spinto a saperne di più sui fatti della Banda della Magliana: perché è pur vero che c’ero, però ero bambina, e di questa famigerata banda non ne ho mai sentito parlare, all’epoca, anche se giri di delinquenza a Trastevere ce ne son sempre stati, e lo sapevano tutti. Partendo dal libro, ho letto altre cose sull’argomento, ho seguito vari documentari in televisione come quello, ben fatto, di Lucarelli, cercando di capire di più di quegli anni, di un periodo in cui certe cose, pur sapendone poco o nulla, si avvertivano nell’aria.

A Trastevere c’era un bel giro di delinquenza, era risaputo, il quartiere non era certo quello di adesso, era un quartiere popolare, quasi una borgata: di droga però ancora non si parlava molto, non ai livelli degli anni Ottanta, quando l’eroina esplose come una bomba, ma comunque lontano dal mio ambiente, mica come adesso che la droga trovi dovunque.

Uno dei giri più proficui era, invece, era quello dei furti d’auto: voci di quartiere accreditavano come un pezzo grosso del giro un negoziante della mia via che veniva chiamato il Barone, un tipo bruno, magro, sulla trentina scarsa, che stazionava tutto il giorno tra il suo negozio e il bar accanto; da cui, pochi anni più tardi, una nostra compagna di classe si vantò, con abbondanza di particolari, di essere stata sedotta: dovevamo avere diciott’ anni o forse meno, ancora mi ricordo lo squallore di quel racconto, che tristezza.
E’ evidente che agli occhi di alcune ragazze essere il ras del quartiere è motivo di fascino, vai a capire…

Nel 1977 ci comprammo una 126 verde oliva, negli anni successivi rimpiazzata da un’altra 126 ma arancione, sicuramente ve la ricordate bene: una specie di scatoletta di latta, inaffondabile, con la lamiera dura come roccia, gli ammortizzatori inesistenti e lo sterzo durissimo, ma era la prima macchina di famiglia, e a noi sembrava la carrozza di Cenerentola.

Mamma ci scarrozzava tutti con una guida piuttosto disinvolta, spesso ci infilavamo dentro in cinque, pigiati come sardine. Dovevamo essere sicuramente tutti più magri di adesso, viste le dimensioni minime dell’abitacolo.
Appena comprata cominciarono i furti, all’ordine del giorno, uno specchietto, una ruota, un sedile, un vetro rotto, un vero stillicidio.
Una volta ce la rubarono definitivamente, tutta intera. Venne ritrovata in periferia, completamente smontata, avevano lasciato solo la scocca e i sedili, il resto se l’erano portato via tutto. Andammo a riprenderla da uno sfasciacarrozze in un luogo desolato, un posto da incubo, pieno di cani che si aggiravano tra cumuli di rottami e lamiere contorte, i poveri resti poggiati su quattro pile di mattoni, anche le ruote avevano smontato.
La facemmo rimontare tutta, sperando di avere maggiore fortuna.

Il busillis si risolse quando mia madre, parlando non so bene con chi, venne a sapere che era un fatto strano, che se la prendessero con la nostra macchina, visto che solitamente gli abitanti del quartiere non venivano toccati, non da quel giro, almeno. Evidente che non sapevano di chi fosse la macchina. Infatti, una volta fatto sapere in giro che la 126 era nostra, non venne più toccata.

Era anche l’epoca degli scontri di piazza, del sequestro Moro, delle irruzioni nelle case alla ricerca di persone, basi di brigatisti e armi; la Digos che si presentava con uomini in assetto di guerra e coi mitra puntati, appartamento dopo appartamento, tutto il palazzo bloccato, le volanti al portone.
Durante il sequestro Piattelli a casa mia venne fatta un’irruzione in piena regola, da parte delle squadri speciali: alla polizia era arrivata una telefonata anonima che asseriva che l'ostaggio (mi pare fosse una donna) fosse nascosto da noi, in piena Trastevere. Non trovarono niente e nessuno, ovviamente.
Il comandante ci chiese se la famiglia avesse qualche nemico, visto che l’anonimo informatore era stato molto preciso sul piano e sull’interno, sembrava proprio un dispetto personale.
Non si seppe mai chi fu, l’autore della telefonata anonima.
Il nostro palazzo, comunque, era particolarmente nel mirino, visto che alla scala B c’era una sede di Lotta Continua, con un bel via vai di gente: una volta ci fecero evacuare tutti, di corsa, perché con un’altra telefonata anonima avevano segnalato una bomba.
Insomma, erano anni un po’ così, con un clima pesante…non per niente, oggi li chiamano anni di piombo.



Quando uscì il film, nel 2005, andammo a vederlo molto curiosi, il cast ci sembrava ottimo, tutti giovani attori di prima classe, Piefrancesco Favino, Claudio Santamaria (che a me piace moltissimo), Kim Rossi Stuart, una schiera di comprimari di lusso altrettanto quotati, insomma, Placido prometteva un bel lavoro, e poi il libro si prestava bene ad essere sceneggiato.

Invece, fu una mezza delusione. Non per gli attori, che quasi tutti erano abbstanza azzeccati nelle parti, a parte forse troppo belli per essere veri (insomma, Scamarcio che fa il Nero, ma andiamo...).

Il romanzo era stato tagliuzzato senza rispetto, condensato in maniera frettolosa, i personaggi raccontati in maniera superficiale; molte parti poco chiare, alcune invenzioni gratuite, alcune figure completamente travisate (come Patrizia, la donna del Dandy, che sembrava una mezza cretina, tra l’altro doppiata malissimo).
E poi, un'ambientazione di maniera, un po’ finta, gli anni settanta ricostruiti alla bell’e meglio: avrebbe potuto essere ambientato tranquillamente negli anni Ottanta o Novanta, neanche l’ombra di atmosfera, il racconto che si snodava patinato, farraginoso, proprio una mezza delusione.

Di solito, quando viene tratta una fiction da un film, non può che peggiorare.
Avevo letto, invece, delle ottime critiche di questo sceneggiato, in onda su Sky dai primi di novembre, in 12 puntate (siamo alla sesta, se non sbaglio), e mi sono incuriosita.
Ed infatti ve lo consiglio, perché merita : raro vedere una serie televisiva di questo livello, così curata nei particolari, con una fotografia dai colori volutamente retrò, le ambientazioni ricostruite meticolosamente, nei minimi dettagli: ambienti, case, costumi, macchine, pettinature, tutto fedelissimo, veramente.
Il libro è praticamente ricalcato alla lettera, d’altronde 12 puntate hanno permesso agli sceneggiatori (tra cui figura anche De Cataldo) di poter approfondire bene l’argomento, e anche di scavare nella psicologia dei personaggi, che risultano ben tratteggiati e molto caratterizzati.
Per quanto riguarda gli attori, pensavo che fosse difficile far dimenticare un cast stellare come quello del film, perché nell’immaginario collettivo (anche rileggendo a posteriori il romanzo) uno associa automaticamente il Libanese a Favino, il Freddo a Rossi Stuart e così via, e Dandy non può che avere il bel viso di Santamaria.


Mi sono dovuta ricredere: gli attori della serie sono tutti giovani e sconosciuti (scelti da Placido, comunque), ma secondo me sono anche più bravi degli originali. Soprattutto Francesco Montanari (Il Libanese), Alessandro Roja (Dandy) e Marco Bocci (il commissario Scialoja, autentica faccia anni Settanta, assomiglia a Giannini da giovane, forse il più indovinato tra gli attori) sono azzeccatissimi nelle parti.
Perché sono facce vere, comuni, nessuno particolarmente bello, e tutti molto più somiglianti alle persone dell’epoca: fisici smilzi, più sottili rispetto ai decenni successivi, i jeans stretti a fasciare i fianchi magri, i capelli lunghi spesso phonati, le barbe incolte, quei look un po’ fricchettone che però allora faceva tanto fighetto.
La serie è girata in maniera estremamente realistica, anche piuttosto cruda, con grande attenzione ai colori, alle atmosfere: ho riconosciuto gli angoli di Trastevere dove è stato girato (io ci passavo tutti i giorni, per andare a scuola), con macchine d’epoca, bar e appartamenti ricostruiti negli arredi, i mobili, gli oggetti, le tappezzerie a disegni optical, i manifesti pubblicitari, un vero tuffo nel passato, sembrava proprio di esserci (bellissima anche la colonna sonora).

Molto evocative anche le scene di scontri tra ragazzi e polizia, il clima teso che si respirava nelle strade, gli slogan: se non fosse per i vestiti (sì sì, ci vestivamo proprio così anche noi piccoli, che bello, magliettine dolcevita attillate, giacche coi risvolti enormi, pantaloni a zampa d’elefante, salopettes scozzesi, scarpe e cappelli fatti a maglia: altro che jeans calati, mutande e ciccia in vista degli adolescenti moderni!) potrebbero sembrare gli studenti dell'Onda in piazza contro la Gelmini.


Quelli di allora però erano un po’ incazzati, mi sa…

sabato 22 novembre 2008

Viaggio negli anni Settanta: Zuppa di Cipolle e Ceci e disquisizioni sui Fantasmi dei Natali Passati


L’altro giorno stavo leggendo un articolo su La Repubblica riguardo il Natale magro che si preannuncia, e mi è venuto da ridere: perché gli argomenti di cui discuteva l’autore (forse era un’autrice, non ricordo) erano i medesimi su cui avevo disquisito appena il giorno prima con mia madre, mia zia, mia suocera e una mia amica (nel corso di quattro telefonate fiume, ovviamente): disquisizione che si era conclusa con l’affermazione unanime, senza via di scampo: quest’anno niente regali di Natale, per nessuno.
Bando alle inutili (e costose) cianfrusaglie di cui abbiamo le case piene, niente maratone disperate alla ricerca del regalo originale e a prezzo accessibile, basta ciarpame con cui riempiamo i nostri armadi e le nostre credenze: quest’anno sarà un Natale all’insegna dell’austerità, un Natale di magro in cui l’unica cosa importante è vedersi con i propri cari e i propri amici, magari con un bel panettone fatto in casa, che pure lì ho visto prezzi allucinanti, ma siamo impazziti?

I negozi sono già addobbati dal 1 novembre, almeno qui a Roma: si guarda nelle vetrine illuminate, si dà una sbirciatina agli scaffali stracolmi di oggetti eleganti e assolutamente inutili, si leggono i prezzi sul cartellino e si fa immediatamente dietro front.
Tutto quello che non è necessario, si taglia.

Stavo guardando proprio stamattina un elegante negozio qui a Boccea, uno di quei casalinghi di lusso stile Coin che mi piacciono tanto, tutto pieno di quegli oggetti tipo Natale nordico che vanno di moda da un paio d’anni a questa parte.
Oggetti sicuramente belli, niente da dire, ma del tutto inutili e costosissimi, come giostrine mobili in legno stile Ottocento, casette di ceramica, babbi natali e renne di peluche, piatti da torrone (ma quanti ne mangiate, in tutto l’anno, per dovervi comprare un piatto apposito?), lavette da bagno a forma di fetta di torta e candele a forma di pasticcino.
Per non parlare di quell’oggetto assolutamente Kitch che sono i Babbi Natali scalatori, l’anno scorso avevo proposto un Fronte Nazionale di Liberazione dei Babbi Natali Scalatori, quest’anno propongo invece una Campagna di Tiro al Bersaglio per l’Eliminazione Totale dei Babbi Natali Scalatori, che ne dite?

Va beh, quest’anno va così, credo, per tutti: i giornali strillano del crollo dei consumi, del calo delle vendite, della disperazione dei commercianti, e in qualche misura hanno anche ragione. Ma io, non so voi, ho ancora il maledetto vizio di leggere il prezzo in euro e trasformarlo mentalmente in lire, so che ormai è inutile ma mi viene lo stesso, ed ogni volta inorridisco.
Ogni volta che entro in una pasticceria (ormai raramente), guardo i prezzi di paste e torte e mi chiedo se, puta caso, per sbaglio non abbia infilato la porta di una gioielleria. L’ultima volta che ho comprato la torta per il mio compleanno mi è preso un coccolone, fatto un rapido calcolo degli ingredienti, ho concluso che facendola io ce ne sarebbero uscite fuori cinque, mi sembra veramente allucinante. Credo che l’abitudine piccolo-borghese del vassoio di pastarelle la domenica sia ormai riservata ai ceti decisamente benestanti, visto che è una specie di investimento.

So che sono discorsi pieni di luoghi comuni, me ne rendo perfettamente conto, tipo non esistono più le mezze stagioni e piacevolezze del genere ma, signora mia, mi sembra veramente che il mondo attorno a noi stia impazzendo.

Questo periodo così buio mi ricorda molto alcuni anni della mia infanzia: chi era piccolo negli anni Settanta forse si ricorderà una vita decisamente più spartana, che culminò con il cosiddetto periodo di Austerity: furono anni bui, in tutti i sensi, con la crisi del petrolio, l’inflazione, per non parlare dei disordini sociali e politici di cui ho vaghi ricordi.

Uno di quelli più netti è una manifestazione di scatenate femministe, che protestavano con girotondi e cori violenti in Piazza San Cosimato, e mia madre, di ritorno dal doposcuola (un convento di suore, un posto per signorine perbene, ovvio) che mi tirava per farmi andare più veloce, lontano da quelle pazze furibonde: adesso sicuramente starei in piazza a manifestare con loro, e probabilmente anche lei.

Ci fu un periodo in cui addirittura si spensero le insegne al neon dei negozi e le vetrine, per risparmiare elettricità, tra il 1973 e il 74 mi pare, ma la percezione della crisi economica durò molto più a lungo.
Eravamo forse alla metà di quel decennio oscuro e tormentato, quando si inventarono dei mini-assegni da cento lire e altri piccoli tagli che sembravano le banconote finte del Monòpoli e che sostituivano le monete, di cui si ebbe improvvisa carenza;quei piccoli assegni rimasero un paio di anni in circolazione, si scolorivano subito e in breve tempo si usuravano.

D'altra parte le monete erano il taglio che si utilizzava più spesso.
Un grosso cono gelato, che si trovava solo l’estate, mica li vendevano anche in inverno, costava circa 150 lire, con la stessa cifra ci prendevi un bel pezzo di pizza bianca di fornaio per la merenda, pure la cioccolata si comprava a fette dal fornaio, degli enormi e pastosi panetti rettangolari al cacao e nocciola avvolti nella stagnola dorata, da cui tagliava una spessa fetta da mettere nel panino all’olio; le merendine non esistevano ancora, se non il Bondì: quando uscì il Bondì al cioccolato (si vendevano sfusi, mica a confezione) lo volevamo tutti perché era una novità inaudita, con quella copertura di cioccolata fondente e granella di zucchero e un morbido ripieno di pastosa cioccolata.
Eh no, non li fanno più i Bondì di una volta…

Anche noi che siamo stati bambini all’epoca, del resto, vivevamo in un mondo piuttosto austero ma, non essendo abituati agli agi moderni, non ce ne lamentavamo.
La Trastevere degli anni Settanta era un quartiere popolare, fatiscente, con case vecchie, senza ascensore, dalle stanze enormi, fredde, piene di spifferi. I giovani di oggi non sanno, ad esempio, che ascensori e riscaldamenti sono comodità relativamente recenti, anche se può sembrare strano, al giorno d’oggi.



Nella mia grande casa di Trastevere, uno di quegli appartamenti coi corridoi lunghissimi e i soffitti alti fino a 5 metri, mura di mattoni pieni spesse 50 centimetri, il riscaldamento fu messo solo nel 1982 e l’ascensore poco dopo. L'albero di Natale si faceva il 23 Dicembre, anche questo può sembrare strano, ma nessuno lo faceva con così tanto anticipo,come adesso.

Non sto parlando di famiglie sulla soglia della povertà, ma di un normale ceto impiegatizio con casa di proprietà, una piccola borghesia che viveva, per l’epoca, anche con piccoli lussi come il televisore a colori, comprato nel 1977: eravamo gli unici nel palazzo a possederlo, un mastodontico Nordmende che il pomeriggio attirava a casa nostra una nutrita schiera di ragazzini del condominio, che ancora vedevano Jeeg Robot e Quinta Rete, con la mitica Marta Flavi e la sua scimmietta Gocoberto, in bianco e nero.
Televisore cui mi impegnai, immediatamente, a rompere quella meraviglia tecnologica che corrispondeva al nome di telecomando. Ovviamente successe una tragedia in famiglia, non fui mai perdonata, ancora adesso me lo rinfacciano come gravissima colpa, e il telecomando non venne mai più riparato.

Mi ricordo i lunghi e freddi inverni della mia infanzia riscaldati solo da una grande stufa a bombola, che viaggiava da una stanza all’altra ma solo dal pomeriggio in poi (abitudine spartana che mi è rimasta, con grande disperazione di mio marito), e rimedi antichi come la vestaglia da casa in puro acrilico nei colori rosa e celeste pastello ( ne avevo ben due, mica storie) e la borsa dell’acqua calda. Ecco, la borsa dell’acqua calda (io sono piuttosto freddolosa) è stato uno degli oggetti transizionali della mia infanzia, la mia salvezza, la mia coperta di Linus. Non me ne separavo mai, me la sono portata dietro pure, tra gli sghignazzi dei miei amici, nel primo viaggio da soli in quel di Avezzano, e avevamo già diciassette anni: però sopportai le risate e mi tenni stretta la borsa, visto che nella casa di Teodora faceva un gelo polare, c’erano praticamente i pinguini, sicuramente lei se lo ricorderà.

Non capisco perché quegli anni bui e faticosi ora io li rievochi come affascinanti, pieni di ricordi preziosi, di racconti e aneddoti curiosi: forse perché le cose sembravano avere un altro valore, perché si era in un’epoca di transizione, di invenzioni, di cambiamenti, e ovviamente perché i ricordi dell’infanzia assumono sempre un alone magico, quasi irreale.

Ora sembra tutto così ovvio, oggi che siamo pieni di gadget tecnologici, di computer, palmari, navigatori satellitari, gli armadi stracolmi di roba, cappotti e piumoni in quantità, mica come in quegli anni, in cui il cappotto era uno (un loden verde, ovviamente, non c’era altro), costosissimo, che veniva comprato in crescenza perché ti doveva andar bene almeno un paio di inverni.

Va beh, vi ho trascinato in questo rapido viaggio nei freddi anni Settanta, sospinta dal vento dei ricordi e dal venticello gelido che comincia a soffiare in questi giorni, d’altronde era ora, l’inverno doveva pur arrivare.
Questo ritorno alle origini è anche un ritorno ad una cucina invernale, rustica, a base di ingredienti poveri ma sostanziosi, insomma, con questo freddo novembre una bella zuppa calda, magari cotta in un tegame di coccio, non ci sta niente male, e non venitemi a ciarlare di stelle Michelin, di cucina creativa e Food Design, per favore, che una zuppa come questa è in grado di soddisfare palato, olfatto e vista, altro che storie. Tra le le cose che adoro dell'inverno (posto che odio il freddo e la pioggia), ci sono il the delle cinque, magari accompagnato da un dolcetto, e appunto una calda e saporita minestra, anche senza pasta, condita semplicemente con un filo d'olio di oliva e una bella spolverata di parmigiano.
Oltre la normale Zuppa di fagioli, faccio spesso quella con ceci, cipolle e patate (questa volta avevo anche mezza scatola di borlotti avanzati e ci ho infilato anche quelli).


Quando ho tempo metto a mollo i preparati di legumi secchi, quando vado di fretta stappo al volo un bel barattolo di legumi lessi, come in questo caso.

Se poi la volete ancora più sostanziosa, aggiungeteci un paio di salsicce oppure un pezzo di luganiga, così si fa piatto unico: il che, di questi tempi, è anche un notevole risparmio ( sempre per il discorso di Austerity di cui sopra).

Per tre persone:

  • una scatola di ceci lessi da 400 grammi

  • 200 grammi di borlotti lessi

  • una cipolla (grossa)

  • quattro patate di medie dimensioni

  • 1 carota
  • 8 cucchiai di passata di pomodoro

  • olio evo

  • parmigiano

Tagliare la cipolla a fettine sottili, quindi metterla in un tegame (meglio se di coccio) con l'olio.

Farla dorare a fuoco dolce, quindi aggiungere le patate a tocchetti e le carote a dadolini piccoli, mescolare e far insaporire un minuto.

Aggiungere un litro di acqua, stemperare i cucchiai di pomodoro, salare e mettere a sobbollire dolcemente per 20 minuti circa.

A questo punto, aggiungere tutti i legumi scolati, mescolare e continuare la cottura per altri 20 minuti circa.

Rompere qualche patata per addensare il sugo, assaggiare di sale, quindi continuare a cuocere per altri dieci minuti (in tutto 50 minuti), oppure secondo la consistenza desiderata.
Far riposare la zuppa qualche minuto.
Servire calda con un filo di olio a crudo ed una bella spolverata di parmigiano.


sabato 5 aprile 2008

La casa del Glicine

Oggi, visto che era la Giornata del FAI e che il cielo si presentava azzurro, nonostante il venticello di tramontana che soffia ormai da un paio di giorni, ho avuto la brillante idea di andare a Via Giulia, dove fino a domani sera sono aperte delle meraviglie architettoniche come Palazzo Farnese, Santa Maria Orazione e Morte e così via: avevo portato con me la macchina fotografica (che spero di rimpiazzare al più presto perchè sul più bello mi molla), per condividere con voi le bellezze segrete di Roma.

E invece, macchè. Appena sono arrivata a Campo de' Fiori

ho visto una fila interminabile di centinaia di persone, e ho capito l'antifona. Via Giulia, che di solito è una stretta e antica strada dal grande fascino, era invasa da una moltitudine di persone come non l'avevo mai vista in vita mia.

Per cui, gambe in spalla, ho scavallato il Tevere e sono passata a Trastevere.

La mia destinazione, vista la fioritura di glicine di questi giorni, è stata quella che io chiamo la casa del glicine, su Via Calandrelli, Gianicolo,

proprio di fronte ad una villa storica del quartiere, la villa dei miei giochi d'infanzia (purtroppo ho fatto solo una parte di fotografie perchè la macchina è defunta, ci tornerò così ve la illustro meticolosamente), l'ottocentesca Villa Sciarra...vi dice niente questo nome? E invece dovrebbe, perchè è citata nel libro di Gabriele d'Annunzio Il Piacere.

In questa bella e ormai fatiscente villa, infatti, è ambientato un brano dell'opera: quando ritrovo i libro vi citerò precisamente le sue parole, cercando di ritrovare gli angoli in cui passeggiava Andrea Sperelli.

Per ora, godetevi questa spettacolare fioritura che, ogni primavera, ormai da decenni, estasia i pochi pellegrini che salgono fino a qui. Purtroppo la macchina non è riuscita a cogliere in pieno la bellezza e il colore di questi grappoli...

Questa splendida casa e l'elegante villa accanto sono visibili anche dall'interno di Villa Sciarra
Il resto del Gianicolo e la Villa alla prossima puntata...

martedì 25 marzo 2008

Passeggiate romane: a spasso per Trastevere

Gli ultimi post sono stati quasi tutti di ricette e dolci, ho un po’ tralasciato sia Parigi che altri argomenti, ma insomma, la mia vita mica è fatta solo di quello!

Per cui, riprendo con qualche piacevole passeggiata, stavolta non per Parigi (di cui ancora ho tanto da dire, peraltro) ma per Roma, continuando sulla scia del Post su Porta Portese: voglio far conoscere un po’ meglio, a chi non è di queste parti, quel meraviglioso quartiere che è Trastevere. Ovviamente non voglio fare la guida tustistica, per quello potete comprarvi quella del Touring che sicuramente è più completa e dettagliata. E’ ovvio che, avendoci abitato per quasi trent’anni, ogni angolo, piazza, negozio è legato a dei ricordi, degli aneddoti, e non potrò evitare di raccontarveli, mi spiace.

Chi è di Roma conosce principalmente Trastevere perché è pieno di pizzerie e locali, ed è un peccato, perché Trastevere è molto di più.

Innanzi tutto, è il mio quartiere, e questo già basterebbe. Inoltre, è un luogo pieno di storia, misconosciuta ai più, soprattutto a quelli che lo animano di notte, e sono completamente all’oscuro della sua lontana origine e delle trasformazioni che ha subito nell’arco di quasi duemila anni di storia.


Solo un paio di accenni alla storia del rione, che nasce in epoca romana come quartiere periferico e commerciale (Trans Tiberim), abitato prevalentemente da immigrati di origini orientali: di questo passato rimane ben poco, tranne i resti della VII coorte dei Vigiles, su Viale Trastevere e una latrina romana sul Gianicolo (l’ho letto su un libro, ma non so dov’è, sorry, ma se vi interessa mi informo).
Nei primi secoli dopo Cristo vi sorsero alcune importanti chiese, come Santa Maria in Trastevere (che è l’argomento del post), San Crisogono e S. Cecilia, splendidi esempi di architettura romanica. Per tutto il Medioevo vi fu una fiorente comunità ebraica, che poco più tardi si trasferì dall’altra parte del Tevere, a poca distanza, in quello che ancora adesso viene chiamato il Ghetto, e in cui gli ebrei furono segregati fino alla presa di Porta Pia.

Di epoca medievale non rimane quasi nulla, tranne qualche sporadico resto, difficile da individuare, incastonato perfettamente nell’ impianto secentesco del rione, caratterizzato da vicoli stretti, palazzi di pochi piani, strade selciate piuttosto sconnesse, cantine, vecchie stalle, abitazioni con finestre piccole e soffitti molto alti. Tutta la zona, però, fu pesantemente rimaneggiata alla fine dell’Ottocento, interventi devastanti che stravolsero tutto l’assetto urbanistico del quartiere, a partire dallo sventramento per la costruzione del Viale del re, oggi Viale Trastevere, una lunga strada stile boulevard che dal fiume arrivava fino alla nuova Stazione ferroviaria di Trastevere.

Questo taglio ha diviso in due il quartiere, dando il via ad una serie di trasformazioni che ne hanno alterato profondamente sia la topografia che l’ampiezza, ed infatti molte delle parti che noi consideriamo tipiche, come la salita al Gianicolo (Via Goffredo Mameli, via Enrico Dandolo ), Piazza San Cosimato, il quartiere Mastai, risalgono solo alla fine dell’Ottocento: anche lo stile dei palazzi è piuttosto diverso, uniformandosi allo stile che i piemontesi portarono a Roma per la costruzione dei grandi assi di scorrimento della città (Corso Vittorio, Corso Rinascimento, Via Nazionale etc…)


Tutta la parte verso il Gianicolo, invece, ebbe sempre un carattere campestre, suburbano, con grandi ville e giardini fin dall’età Romana. Questa tradizione continuerà anche in epoche più recenti con la costruzione , in epoca rinascimentale, della Farnesina e di Villa Corsini. Tutt’ora vi è collocato l’Orto Botanico e l’ottocentesca Passeggiata del Gianicolo, da cui si gode un bel panorama della città (sorvoliamo sul fatto che in questa zona la sera ci sono macchine parcheggiate un po’ ovunque, e non per ammirare il panorama).

Diciamo, comunque che, della Trastevere che poteva vedere Ettore Roesler Franz, e che ha ritratto nei suoi celebri acquerelli della Roma Sparita, noi possiamo ammirare una minima parte, purtroppo. Ma le trasformazioni di Trastevere non si limitano alla topografia e la toponomastica.

Fin dall’antichità, questa zona non ebbe mai un carattere residenziale, di lusso, anzi: il suo carattere schiettamente popolare rimase una caratteristica del quartiere fino a tempi recenti, diciamo fino alla fine degli anni Settanta: la tipologia del trasteverino è andata radicalmente trasformandosi solo da trent’anni a questa parte.

Ancora negli anni Settanta, l’aggettivo trasteverino non era proprio un complimento, i veri trasteverini essendo popolani dal dialetto spinto e modi piuttosto rozzi (e lo dico con cognizione di causa, visto che ero bambina, in quegli anni, e me lo ricordo bene). Bande di ragazzini imperversavano per i vicoli, giocando a palla, a campana e ad elastico per strada (mia madre non voleva che rimanessi tutto il giorno per strada con loro, che mi mescolassi alla plebe, ma era l’unico modo di giocare, essendo da noi i giardini e i parchi non proprio vicinissimi).

A partire dagli anni Novanta, i veri trasteverini cominciarono a lasciare il rione per trasferirsi altrove, lasciando posto ad un nuovo genere di abitanti, quasi sempre alta e media borghesia, professionisti, commercianti, e i prezzi delle case cominciarono a salire, le vecchie botteghe a chiudere, e proliferarono pizzerie e locali.

Oggigiorno, il quartiere popolare e verace di allora si è trasformato in un’immensa sala gioco, in cui nuovi locali di tendenza spuntano come funghi (una mia amica sostiene che c’è addirittura un locale di scambisti vicino al convento dove ho fatto le scuole, vorrei sapere come l’ha saputo). Aggirarsi per i vicoli di Trastevere la sera è come immergersi in un girone infernale, l’intero quartiere è invaso da una folla sporca, rumorosa e invadente, fino a tarda notte.

In tutto questo, nonostante l’invasione di turisti e nottambuli, le bellezze architettoniche della zona, a parte qualche recente intervento di restauro (Piazza San Cosimato, ad esempio), sono state trascurate in maniera vergognosa: invece di pulirlo e lustrarlo come un gioiello, l’intero rione è praticamente abbandonato a sé stesso, con palazzi fatiscenti dalle facciate scrostate, muri cosparsi di scritte e macchine parcheggiate creativamente ovunque, per non parlare dell’invasione serale di venditori ambulanti, stile suk del Cairo.


Non voglio sembrare una vecchia brontolona ma, per me che ricordo quegli anni, la volgarizzazione progressiva del quartiere è veramente una profanazione! Insomma, lasciatemi brontolare un po’, sguazzando nella visione idilliaca della mia Trastevere…

Tutto questo lungo e nostalgico preambolo, per cominciare il nostro giro turistico (che durerà un bel po’, purtroppo per voi) alla scoperta degli angolini più nascosti di questa bellissimo e fatiscente rione.
E allora cominciamo dalla perla del quartiere, Piazza Santa Maria in Trastevere e l’omonima Chiesa, la prima basilica sorta a Roma, nel IV secolo dopo Cristo.


A questa piazza sono personalmente affezionatissima: abitando da queste parti, ci sono transitata mediamente almeno due volte al giorno per circa undici anni in direzione Via della Lungaretta (andavo a scuola al Convento di Santa Rufina, dai tre ai quattrodici anni), e in seguito in direzione Via Giulia, Liceo Virgilio, per i successivi cinque.

La fontana al centro della piazza sembra risalga addirittura all’epoca di Augusto (non in questa posizione, però), fu rifatta a varie riprese, ma l’impianto attuale è della fine del Seicento; pesantemente restaurata nell’Ottocento, è formata da una vasca ottogonale con conchiglie, su progetto dell’architetto Carlo Fontana.
Se fosse piena sarebbe anche più bella, ma non si può avere tutto dalla vita.




Come si vede dalle immagini, la mia presenza in questa piazza è stata decisamente assidua.


Questa bella fontana è stata più volte considerata degna di fare da sfondo ai miei ritratti, come si può vedere dalle varie foto scattate da mio padre con la 6 per 6 (se poi avesse azzeccato le inquadrature, le foto sarebbero state anche più belle).



Oggigiorno la piazza non ha perso nulla del suo fascino.
Evitando come la peste la folla delirante che l’invade la sera, il giorno (e soprattutto la mattina) è ancora bella e quasi deserta com’era quando, con la cartella in spalla, mi trascinavo verso le mie sudate carte.
L’impianto della piazza risale al Seicento ma conobbe numerosi interventi di restauro fino al Novecento: questo imponente palazzo è denominato di San Calisto (dalla Chiesetta posteriore a cui è appoggiato, invisibile dalla piazza), quello in fondo, dipinto di un improbabile color celestino, è il cinquecentesco Palazzo Leopardi, restaurato in anni recentissimi.
Io, infatti, me lo ricordo fatiscente e scrostato, ma decisamente di un altro colore…

A questo bel palazzo sono legati alcuni ricordi particolari dei miei anni alle elementari. Alla sinistra del portone, infatti, vi era aperta una botteguccia di fiori e piante, davanti alla quale io e la mamma passavamo ogni mattina per andare a scuola (per la cronaca eravamo sempre in ritardo perché, essendo io una gran dormigliona, mi ci doveva trascinare a forza, a scuola). Spessissimo ci fermavamo dalla fioraia per comprare un mazzo di anemoni e fresie, di garofani giapponesi, oppure una piantina fiorita, da portare alla mia maestra, suor Consilia.
E’ evidente che allora i fiori non dovevano avere i prezzi esorbitanti che hanno oggi, altrimenti saremmo andati in fallimento. Ancora oggi, quando vedo un mazzo di anemoni e fresie, mi ricordo di quella signora e dell’odore umido di quella bottega un po’ spoglia, coi soffitti alti e le pareti imbiancate a calce.

In seconda elementare ebbi come compagna di banco una bambina di nome Donatella, che abitava proprio in questo palazzo: non perché fosse ricca, ma perché all’epoca era un brefotrofio, proprio così. Non sto parlando dell’epoca di Oliver Twist, ma del 1976: era un orfanotrofio gestito da suore, anche se Donatella non era orfana. Venne parcheggiata lì, credo su sentenza del tribunale, perché i genitori erano separati e stavano divorziando: a scuola questa notizia veniva sussurrata sottovoce, essendo ritenuto piuttosto infamante essere figli di separati, quasi un segreto da custodire con vergogna. Donatella ci rimase pochi mesi, tanto che l’anno dopo cambiò scuola e non ne seppi più nulla, ma col senno di adesso mi pare impossibile che nell’anno del Signore 1976 ancora fossimo così arretrati.

In ogni caso, come in un libro lacrimoso di orfani abbandonati, le suore che avevano in gestione il convento erano piuttosto terribili, e il posto alquanto triste (almeno questi erano i racconti della mia amica). Ovviamente un brefotrofio non può essere un posto allegro, ma chissà come se lo viveva la poverina…una cosa che ancora mi rimane profondamente impressa è la sua merenda, consistente in due tristissime fette biscottate con un sputo di nutella sopra, veramente un’ombra.
A casa mia, invece, mia madre sfornava fior di crostate delle dimensioni di una ruota di carretto, e io mi portavo per merenda fette enormi grondanti marmellata e pezzi di ciambelloni morbidi e profumati avvolti nella stagnola (infatti i risultati si notano a tutt’oggi). Avendo io raccontato a casa delle tristi merende della mia amica, mia madre provvedeva a mandare anche per lei una fetta di dolce.

Ed eccola, la bella chiesa Romanica (per un tour virtuale completo vi consiglio il sito
http://www.santamariaintrastevere.org/)


La fondazione risale addirittura al IV secolo dopo Cristo, sul luogo dove, narra la leggenda, si ebbe nel 38 avanti Cristo una prodigiosa eruzione di olio dal terreno(forse petrolio).

La basilica conobbe numerosi a sostanziali cambiamenti nell’VII, XI, XII e XIII secolo, nonché nel Seicento, Settecento, Ottocento e poi nel Novecento, uno allora ci si chiede cosa ci sia rimasto di originale, soprattutto dopo i pesanti interventi del Vespignani nell'Ottocento. Ma forse la sua bellezza sta proprio nella mescolanza di periodi e materiali...

Diciamo subito che della facciata sono del XIII secolo i mosaici della madonna e le Vergini, il campanile è romanico, mentre il portico è del 1702, ad opera dello stesso architetto della fontana.

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