
L’altro giorno stavo leggendo un articolo su La Repubblica riguardo il Natale magro che si preannuncia, e mi è venuto da ridere: perché gli argomenti di cui discuteva l’autore (forse era un’autrice, non ricordo) erano i medesimi su cui avevo disquisito appena il giorno prima con mia madre, mia zia, mia suocera e una mia amica (nel corso di quattro telefonate fiume, ovviamente): disquisizione che si era conclusa con l’affermazione unanime, senza via di scampo: quest’anno niente regali di Natale, per nessuno.
Bando alle inutili (e costose) cianfrusaglie di cui abbiamo le case piene, niente maratone disperate alla ricerca del regalo originale e a prezzo accessibile, basta ciarpame con cui riempiamo i nostri armadi e le nostre credenze: quest’anno sarà un Natale all’insegna dell’austerità, un Natale di magro in cui l’unica cosa importante è vedersi con i propri cari e i propri amici, magari con un bel panettone fatto in casa, che pure lì ho visto prezzi allucinanti, ma siamo impazziti?
I negozi sono già addobbati dal 1 novembre, almeno qui a Roma: si guarda nelle vetrine illuminate, si dà una sbirciatina agli scaffali stracolmi di oggetti eleganti e assolutamente inutili, si leggono i prezzi sul cartellino e si fa immediatamente dietro front.
Tutto quello che non è necessario, si taglia.
Stavo guardando proprio stamattina un elegante negozio qui a
Boccea, uno di quei casalinghi di lusso stile Coin che mi piacciono tanto, tutto pieno di quegli oggetti tipo Natale nordico che vanno di moda da un paio d’anni a questa parte.
Oggetti sicuramente belli, niente da dire, ma del tutto inutili e costosissimi, come giostrine mobili in legno stile Ottocento, casette di ceramica, babbi natali e renne di peluche, piatti da torrone (ma quanti ne mangiate, in tutto l’anno, per dovervi comprare un piatto apposito?), lavette da bagno a forma di fetta di torta e candele a forma di pasticcino.
Per non parlare di quell’oggetto assolutamente Kitch che sono i Babbi Natali scalatori, l’anno scorso avevo proposto un
Fronte Nazionale di Liberazione dei Babbi Natali Scalatori, quest’anno propongo invece una
Campagna di Tiro al Bersaglio per l’Eliminazione Totale dei Babbi Natali Scalatori, che ne dite?
Va beh, quest’anno va così, credo, per tutti: i giornali strillano del crollo dei consumi, del calo delle vendite, della disperazione dei commercianti, e in qualche misura hanno anche ragione. Ma io, non so voi, ho ancora il maledetto vizio di leggere il prezzo in euro e trasformarlo mentalmente in lire, so che ormai è inutile ma mi viene lo stesso, ed ogni volta inorridisco.
Ogni volta che entro in una
pasticceria (ormai raramente), guardo i prezzi di paste e torte e mi chiedo se, puta caso, per sbaglio non abbia infilato la porta di una gioielleria. L’ultima volta che ho comprato la torta per il mio compleanno mi è preso un coccolone, fatto un rapido calcolo degli ingredienti, ho concluso che facendola io ce ne sarebbero uscite fuori cinque, mi sembra veramente allucinante. Credo che l’abitudine piccolo-borghese del vassoio di pastarelle la domenica sia ormai riservata ai ceti decisamente benestanti, visto che è una specie di investimento.
So che sono discorsi pieni di luoghi comuni, me ne rendo perfettamente conto, tipo
non esistono più le mezze stagioni e piacevolezze del genere ma,
signora mia, mi sembra veramente che il mondo attorno a noi stia impazzendo.
Questo periodo così buio mi ricorda molto alcuni anni della mia infanzia: chi era piccolo negli
anni Settanta forse si ricorderà una vita decisamente più spartana, che culminò con il cosiddetto periodo di
Austerity: furono anni bui, in tutti i sensi, con la crisi del petrolio, l’inflazione, per non parlare dei disordini sociali e politici di cui ho vaghi ricordi.
Uno di quelli più netti è una manifestazione di scatenate
femministe, che protestavano con girotondi e cori violenti in
Piazza San Cosimato, e mia madre, di ritorno dal doposcuola (un convento di suore, un posto per signorine perbene, ovvio) che mi tirava per farmi andare più veloce, lontano da quelle pazze furibonde: adesso sicuramente starei in piazza a manifestare con loro, e probabilmente anche lei.
Ci fu un periodo in cui addirittura si spensero le insegne al neon dei negozi e le vetrine, per risparmiare elettricità, tra il 1973 e il 74 mi pare, ma la percezione della crisi economica durò molto più a lungo.
Eravamo forse alla metà di quel decennio oscuro e tormentato, quando si inventarono dei mini-
assegni da cento lire e altri piccoli tagli che sembravano le banconote finte del Monòpoli e che sostituivano le monete, di cui si ebbe improvvisa carenza;quei piccoli assegni rimasero un paio di anni in circolazione, si scolorivano subito e in breve tempo si usuravano.
D'altra parte le monete erano il taglio che si utilizzava più spesso.
Un grosso cono gelato, che si trovava solo l’estate, mica li vendevano anche in inverno, costava circa 150 lire, con la stessa cifra ci prendevi un bel pezzo di pizza bianca di fornaio per la merenda, pure la
cioccolata si comprava a fette dal fornaio, degli enormi e pastosi panetti rettangolari al cacao e nocciola avvolti nella stagnola dorata, da cui tagliava una spessa fetta da mettere nel panino all’olio; le merendine non esistevano ancora, se non il
Bondì: quando uscì il Bondì al cioccolato (si vendevano sfusi, mica a confezione) lo volevamo tutti perché era una novità inaudita, con quella copertura di cioccolata fondente e granella di zucchero e un morbido ripieno di pastosa cioccolata.
Eh no, non li fanno più i Bondì di una volta…
Anche noi che siamo stati bambini all’epoca, del resto, vivevamo in un mondo piuttosto austero ma, non essendo abituati agli agi moderni, non ce ne lamentavamo.
La
Trastevere degli anni Settanta era un quartiere popolare, fatiscente, con case vecchie, senza ascensore, dalle stanze enormi, fredde, piene di spifferi. I giovani di oggi non sanno, ad esempio, che ascensori e riscaldamenti sono comodità relativamente recenti, anche se può sembrare strano, al giorno d’oggi.

Nella mia grande casa di Trastevere, uno di quegli appartamenti coi corridoi lunghissimi e i soffitti alti fino a 5 metri, mura di mattoni pieni spesse 50 centimetri, il riscaldamento fu messo solo nel 1982 e l’ascensore poco dopo. L'albero di Natale si faceva il 23 Dicembre, anche questo può sembrare strano, ma nessuno lo faceva con così tanto anticipo,come adesso.

Non sto parlando di famiglie sulla soglia della povertà, ma di un normale ceto impiegatizio con casa di proprietà, una piccola borghesia che viveva, per l’epoca, anche con piccoli lussi come il televisore a colori, comprato nel 1977: eravamo gli unici nel palazzo a possederlo, un mastodontico Nordmende che il pomeriggio attirava a casa nostra una nutrita schiera di ragazzini del condominio, che ancora vedevano Jeeg Robot e Quinta Rete, con la mitica Marta Flavi e la sua scimmietta Gocoberto, in bianco e nero.
Televisore cui mi impegnai, immediatamente, a rompere quella meraviglia tecnologica che corrispondeva al nome di telecomando. Ovviamente successe una tragedia in famiglia, non fui mai perdonata, ancora adesso me lo rinfacciano come gravissima colpa, e il telecomando non venne mai più riparato.
Mi ricordo i lunghi e freddi inverni della mia infanzia riscaldati solo da una grande stufa a bombola, che viaggiava da una stanza all’altra ma solo dal pomeriggio in poi (abitudine spartana che mi è rimasta, con grande disperazione di mio marito), e rimedi antichi come la vestaglia da casa in puro acrilico nei colori rosa e celeste pastello ( ne avevo ben due, mica storie) e la borsa dell’acqua calda. Ecco, la borsa dell’acqua calda (io sono piuttosto freddolosa) è stato uno degli oggetti transizionali della mia infanzia, la mia salvezza, la mia coperta di Linus. Non me ne separavo mai, me la sono portata dietro pure, tra gli sghignazzi dei miei amici, nel primo viaggio da soli in quel di Avezzano, e avevamo già diciassette anni: però sopportai le risate e mi tenni stretta la borsa, visto che nella casa di Teodora faceva un gelo polare, c’erano praticamente i pinguini, sicuramente lei se lo ricorderà.
Non capisco perché quegli anni bui e faticosi ora io li rievochi come affascinanti, pieni di ricordi preziosi, di racconti e aneddoti curiosi: forse perché le cose sembravano avere un altro valore, perché si era in un’epoca di transizione, di invenzioni, di cambiamenti, e ovviamente perché i ricordi dell’infanzia assumono sempre un alone magico, quasi irreale.
Ora sembra tutto così ovvio, oggi che siamo pieni di gadget tecnologici, di computer, palmari, navigatori satellitari, gli armadi stracolmi di roba, cappotti e piumoni in quantità, mica come in quegli anni, in cui il cappotto era uno (un loden verde, ovviamente, non c’era altro), costosissimo, che veniva comprato in crescenza perché ti doveva andar bene almeno un paio di inverni.
Va beh, vi ho trascinato in questo rapido viaggio nei freddi anni Settanta, sospinta dal vento dei ricordi e dal venticello gelido che comincia a soffiare in questi giorni, d’altronde era ora, l’inverno doveva pur arrivare.
Questo ritorno alle origini è anche un ritorno ad una cucina invernale, rustica, a base di ingredienti poveri ma sostanziosi, insomma, con questo freddo novembre una bella zuppa calda, magari cotta in un tegame di coccio, non ci sta niente male, e non venitemi a ciarlare di stelle Michelin, di cucina creativa e Food Design, per favore, che una zuppa come questa è in grado di soddisfare palato, olfatto e vista, altro che storie.
Tra le le cose che adoro dell'inverno (posto che odio il freddo e la pioggia), ci sono il the delle cinque, magari accompagnato da un dolcetto, e appunto una calda e saporita minestra, anche senza pasta, condita semplicemente con un filo d'olio di oliva e una bella spolverata di parmigiano.
Oltre la normale Zuppa di fagioli, faccio spesso quella con ceci, cipolle e patate (questa volta avevo anche mezza scatola di borlotti avanzati e ci ho infilato anche quelli).

Quando ho tempo metto a mollo i preparati di legumi secchi, quando vado di fretta stappo al volo un bel barattolo di legumi lessi, come in questo caso.
Se poi la volete ancora più sostanziosa, aggiungeteci un paio di salsicce oppure un pezzo di luganiga, così si fa piatto unico: il che, di questi tempi, è anche un notevole risparmio ( sempre per il discorso di Austerity di cui sopra).
Per tre persone:
- una scatola di ceci lessi da 400 grammi
- 200 grammi di borlotti lessi
- una cipolla (grossa)
- quattro patate di medie dimensioni
- 1 carota
- 8 cucchiai di passata di pomodoro
- olio evo
- parmigiano

Tagliare la cipolla a fettine sottili, quindi metterla in un tegame (meglio se di coccio) con l'olio.
Farla dorare a fuoco dolce, quindi aggiungere le patate a tocchetti e le carote a dadolini piccoli, mescolare e far insaporire un minuto.
Aggiungere un litro di acqua, stemperare i cucchiai di pomodoro, salare e mettere a sobbollire dolcemente per
20 minuti circa.
A questo punto, aggiungere tutti i legumi scolati, mescolare e continuare la cottura per altri
20 minuti circa.
Rompere qualche patata per addensare il sugo, assaggiare di sale, quindi continuare a cuocere per altri dieci minuti (in tutto
50 minuti), oppure secondo la consistenza desiderata.
Far riposare la zuppa qualche minuto.
Servire calda con un filo di olio a crudo ed una bella spolverata di parmigiano.