I miei viandanti

domenica 4 dicembre 2011

Archeologia industriale e arte (molto)d’avanguardia: il Museo Macro, parte 1



E' assolutamente ora di riprendere le nostre passeggiate romane, che ho trascurato davvero da troppo tempo. In queste mie peregrinazioni qualche volta sono da sola, altre in piacevolissima compagnia. Io e Marta, oltre ad essere unite dalla passione per il flamenco, che abbiamo praticato insieme per anni, siamo unite anche dalla passione per l’arte. Ogni tanto dedichiamo una bella giornata ad un museo, una mostra, un monumento, arte antica o moderna che sia. Ultimamente siamo andate alla scoperta dei nuovissimi (e pochissimi) musei romani dedicati alle arti moderne e contemporanee, che non è propriamente il nostro campo ma che ci piace approfondire, ogni tanto.


Tutte e due abbiamo viaggiato parecchio, tra Parigi, Berlino e altre capitali europee, per cui possiamo ben confrontare l’enorme attenzione e impegno del resto dell’Europa alla situazione abbastanza stagnante di Roma, assolutamente indietro rispetto alle altre città sia per quanto riguarda l’architettura che per l’arte in generale, una disattenzione che si nota anche per la poca cura che abbiamo del nostro patrimonio più antico.

Certo, si potrebbe obiettare che abbiamo talmente tanto da poter rivalutare e offrire al pubblico, e che in fondo nella nostra millenaria capitale non si sente molto la mancanza di altri spazi espositivi, soprattutto se si considera il poco successo avuto dai due nuovi musei come il Maxxi e il Macro che, inaugurato nel 2002, rischia già la chiusura per mancanza di fondi.

Il discorso sarebbe abbastanza lungo e complesso, certo è che sia il Maxxi che il Macro sono due tentativi riusciti a mezzo di allinearci con le altre capitali che, pur non rinnegando la loro storia, hanno saputo reinventarsi ed espandersi in maniera creativa, creatività che mi sembra latiti in maniera preoccupante, dalle nostre parti.




Il Museo d’arte contemporanea di Roma è diviso in due sedi, di cui una più piccola a Testaccio, e la più importante nel quartiere Salario non lontano da Porta Pia, una collocazione leggermente decentrata ma facilmente raggiungibile, nell’ottocentesco complesso della Birreria Peroni: uno splendido esempio di recupero di edifici industriali, di cui altro folgorante esempio è il Museo della Centrale Montemartini, di cui vi ho ampiamente già parlato.

Certo, in questo spazio il concetto ottocentesco di museo è decisamente superato, come è giusto che sia, ma la nostra prima impressione, come per il Maxxi, è che si tratti di uno splendido contenitore con poco contenuto; più che una esposizione di collezioni stabili si può definire uno spazio espositivo fluido, di mostre temporanee ed eventi, in cui si mescolano arti visive e plastiche, fotografia, installazioni, happening e architettura di luce, concerti di musica e spettacoli teatrali, una specie di collezione mutevole, multifunzione e multimediale.

La ristrutturazione e la sistemazione degli spazi espositivi si deve alla francese Odile Decq (un’altra donna, come la tunisina Zaha Hadid progettista del Maxxi), che ha coniugato le linee aggraziate del grande caseggiato ottocentesco con una architettura in metallo e vetro dai colori decisi. Girando attorno al palazzo si passa infatti dalla originaria entrata sul cortile, alla modernissima entrata a vetri del nuovissimo museo: l’atrio grande come una piazza d’armi, immenso e scenografico, spicca per il suo colore nero profondo, illuminato a giorno da un gigantesco tetto a lucernario e interrotto vistosamente da un elemento poligonale di color rosso, una sala congressi decisamente inusuale intorno alla quale si può passeggiare su passerelle sospese.





La prima sala che si apre al pianterreno ospita un work in progress, cioè un’opera d’arte che si espande e si arricchisce col tempo: questo affresco dell’artista rumeno Dan Perjovschy porta il profetico titolo  The Crisi is (not) Over,  un po’ come avere una immensa lavagna bianca per scarabocchiarci sopra, dei graffiti in versione politica e colta.
Lo ammetto, ogni tanto, davanti alle opere più stravaganti, siamo prese da un eccesso di ridarella davvero poco serio, e al primo impatto anche questa sala ci ha lasciato piuttosto attonite. Poi, guardando meglio, ci siamo fermate ad osservare con attenzione   questi disegni, dai tratti ingannevolmente semplici e quasi infantili.

Certo, da qui a Caravaggio ce ne corre, ma l'autore è  un acuto osservatore della realtà, internazionale ma soprattutto italiana: erano i giorni immediatamente successivi alla grande manifestazione romana del 13 febbraio, quella del Se non ora quando, e abbiamo ritrovato la nostra piazza festosa stretta attorno all'obelisco, oltre che richiami precisi alla politica del nostro paese e ai malesseri che serpeggiano nella nostra società, il tutto come un fumetto senza inizio e senza fine, una successione di commenti grafici sul mondo moderno senza soluzione di continuità.






Siamo in quella che si chiama la Galleria Bianca (perchè ha le pareti tutte bianche, suppongo), un ampio corridoio ad elle in cui ci accoglie l’imponente coda di Cetaceo di Pino Pascali (1966)..

Nel mezzo della parete spicca la grande tela di Mario Ballocco dal nome appropriato di Alternanza di Contrasti (1962) e una scultura in metallo, Homo (1946-1950) mentre al centro dello spazio lo scultore Leoncillo Leonardi è presente con due opere dei primi anni Sessanta, Taglio rosso e San Sebastiano nero, delle colate di argilla rivestite di smalti.







Questo scheletro in bronzo patinato  è opera del britannico Marc Quinn (2006).

Appena ho visto quest’opera, non ho potuto fare a meno di pensare, come si dice a Roma quando si deve aspettare a lungo, qui qualcuno c’è morto: infatti l’opera si chiama Waiting for Godot dalla famosa opera teatrale di Beckett, ed evidentemente ha aspettato molto molto a lungo.



Proprio nascosta in un angolo, ci troviamo di fronte a quella che ha tutta l’aria di una porta di un bagno con il segnale di occupato e un paio di jeans infilati sotto, e penso subito all’opera di un bricoleur un po’ mattacchione che ha preso spunto dal bagno di casa mia. E’ invece l’opera d’arte di un famoso duo di artisti scandinavi, Elmgreen& Dragset, due quarantenni quotatissimi nel mondo dell’arte moderna, le cui opere ( dai nomi alquanto suggestivi tipo Desideri silenziosi e sogni infranti, Troppo Tardi, Disgrazia, Diari parigini e Non lasciare questa via ) sono sparse a piene mani un po’ dappertutto, da Berlino a Vienna, Tokyo, Toronto e Parigi.
L’opera si chiama, appunto, Occupato, e con questo non dico altro.




Dell’artista concettuale James Shovlin la performance che occupa venti pannelli-collage (infotografabili per scarsità di luce), una sala intera con la ricostruzione del progetto di un film mai realizzato dell’inesistente regista Jesus Rinzoli dal titolo Hiker Meat (di cui per terra si rischia di calpestare una copia malconcia del copione, come se qualcuno l’avesse scartabellato  di malavoglia e poi buttato per terra), scenografie, bozzetti e materiali di scena, qualche volta piuttosto raccapriccianti.



Siamo pronti per passare al piano successivo, passando per lo scenografico cortile della Birreria Peroni.

2 commenti:

  1. Stupendo reportage, mi hai fatto venire voglia di visitarlo, se mi mandi le coordinate per email, non appena riprendono i miei "pellegrinaggi di lavoro" a roma, lo visiterò senz'altro. Ma dimmi le foto sono "rubate" o si possono fotografare tranquillamente?
    Aspetto info in email se puoi, grazie.

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  2. Sei una guida perfetta e, nonostante io debba confessare che di arte moderna non capisco nulla, i tuoi racconti mi hanno incuriosito, un tour virtuale interessantissimo, aspetto il resto...
    Ciao

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Pellegrino che ti aggiri per queste lande incantate, mi farebbe piacere una traccia del tuo passaggio...

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