I miei viandanti
lunedì 20 aprile 2009
I sapori della città. L'ultimo giorno.
Come tutte le cose belle anche i viaggi, prima poi, finiscono.
La città si è svegliata, sonnolenta, sotto una rada coltre di foschia, l’aria umida ma non minacciosa, una atmosfera nebulosa e ovattata che sembra attutire suoni e colori. Solo più tardi, a mattina inoltrata il sole riuscirà, caparbio, a fare capolino e a sfilacciare gli ultimi refoli evanescenti di nebbia, regalandomi una Ferrara calda, inondata dal sole, finalmente.
Oggi è il giorno dedicato alle rimanenze, ai dettagli sfuggiti nei giorni passati, a ripercorrere strade ormai conosciute: è strano come un posto, che i primi momenti sembra nuovo e misterioso, dopo solo quattro giorni diventi familiare, consueto, sembra quasi ormai ci appartenga.
Ferrara è una piccola città, almeno per me, in pochi giorni si riesce a girarla tutta, anche se qualcosa ho oziosamente tralasciato: sinceramente, non avevo alcuna voglia di andarmi a rinchiudere in qualche museo, Schifanoia a parte (che mi sembrava doveroso), altre cose interessanti come gli interni del Castello Estense e il Museo del mio amato Boldini li avevo già visitati la volta scorsa.
Ho preferito vagabondare a vuoto, girando intorno alle cose, cercando di imprimermi ogni angolo nella mente, ispirata solo dalla fantasia e dall’estro del momento, e alle volte è proprio così che si scoprono i volti segreti e più intimi di un luogo: per caso.
Nella mattina ho percorso una bella parte del quadrante meridionale, quello verso Schifanoia, per arrivare ad un gioiello incastonato a ridosso delle mura della città, il Monastero di Sant’Antonio in Polesine.
E’ un monastero di clausura delle monache benedettine, presenti in questo luogo fin dalla sua fondazione, nel 1250 ma, come dice la sorella che mi accompagna, un cosino minuscolo che parla con un filo di voce, ora sono rimaste solo in 17.
Ogni volta che sento questa parola, clausura, mi vengono in mente le struggenti pagine di Victor Hugo nei Miserabili, che mi ammaliarono la prima volta che lessi il romanzo, in un’età così suscettibile di fascinazione morbosa come i quindici anni; pagine in cui l’autore descrive con dovizia di particolari il convento del Petit-Picpus, a Parigi, dove finisce Jean Valjean fuggendo dalla giustizia, e dove rimarrà con la piccola Cosette ( e non venitemi a dire che avete visto lo sceneggiato però il libro non l’avete letto, che vi picchio…) per ben 6 anni.
Quel convento al Vicolo Picpus (da non confondere con la moderna Rue de Picpus, non lontana), era sito in un quartiere periferico buio e fatiscente, con conventi, orti, giardini e poche e rade case, strade non selciate e lunghe cortine di mura impenetrabili : nella toponomastica moderna dovrebbe essere collocato più o meno tra il Marais e Saint’Antoine, ma già all’incirca nel 1830 era quasi scomparso, anche se Hugo ambienta la vicenda attorno al 1825, ben prima degli sbancamenti di Haussmann e della sua rivoluzione del tessuto urbano più antico, che spazzò via in pochi decenni interi quartieri e abitati risalenti ai secoli precedenti.
Il convento apparteneva alle monache Bernardine benedettine dell’adorazione Perpetua del santissimo Sacramento, un ordine di clausura durissima, che oggi non esiste più, e verrebbe da dire per fortuna, almeno non nella forma in cui lo racconta il grande scrittore francese: un residuo medioevale di devozione che prevedeva, appunto, l’adorazione perpetua 24 ore su 24 da parte delle monache che, in questo modo, espiavano i peccati del mondo intero.
La regola di questo ordine spagnolo, risalente alla metà del 1600, era una delle più dure tanto che, come ci racconta Hugo, molte di esse impazzivano, alla metà del secolo diciannovesimo al Petit Picpus non ne erano rimaste che 28, al tempo in cui scriveva Hugo l’ordine stesso si era quasi estinto.
“Mezzo secolo fa non c'era nulla che più somigliasse a un portone qualunque del portone del numero 62 nel vicolo Picpus. Questo portone, solitamente socchiuso nel modo più incoraggiante, lasciava vedere due cose che non hanno nulla di molto funebre: un cortile circondato da muri tappezzati di vite e il viso d'un portinaio in ozio. Sopra il muro di fondo si scorgevano grandi alberi. Quando un raggio di sole rallegrava il cortile, quando un bicchiere di vino rallegrava il portinaio, era difficile passare davanti al numero 62 del vicolo Picpus senza riceverne un’allegra impressione. Tuttavia era un luogo tetro, quello ch si era visto.
La soglia sorrideva, la casa pregava e piangeva.
(…)
Trascorsi i primi istanti, quando lo sguardo cominciava ad abituarsi a quella penombra di cantina, cercava di superare la grata, ma non andava più lontano di sei pollici; Si fermava a una barriera di imposte nere, assicurate e rinforzate da traverse di legno dipinte in giallo panpepato. Quelle imposte erano a libro, divise in lunghe strisce sottili, e mascheravano tutta la larghezza della grata. Erano sempre chiuse.
Dopo alcuni istanti, si udiva una voce che chiamava dietro le imposte e che diceva:
- Sono qui. Che volete da me?
Era una voce amata, talvolta una voce adorata. Non si vedeva nessuno. Appena si udiva il soffio di un respiro. Pareva che uno spirito vi parlasse attraverso la parete di una tomba.
Trovandosi in date condizioni, molto rare, la stretta stecca di una delle imposte si apriva dinanzi a voi, e l’evocazione diventava un'apparizione. Dietro la grata, dietro l’imposta, si scorgeva, per quanto la grata consentiva di scorgere,di cui si vedevano soltanto la bocca e il mento; il resto era coperto da un velo nero. Si intravedeva inoltre un soggolo nero e una forma appena distinta coperta da un sudario nero. La testa parlava, ma non vi guardava mai, e non sorrideva mai.
(…)
Intanto gli occhi s'immergevano avidamente, attraverso l’apertura che s’era fatta, in quel luogo chiuso a tutti gli sguardi. Un vuoto profondo avvolgeva quella forma vestita a lutto. Gli occhi frugavano quel vuoto e cercavano di discernere ciò che vi fosse intorno all'apparizione. Dopo pochissimo tempo, ci si accorgeva di non veder nulla. Quel che si vedeva era la notte, il vuoto, le tenebre, una nebbia dell’inverno mista a un vapore della tomba, una specie di spaventevole pace, un silenzio dove non raccoglieva nulla, neppure sospiri, un’ombra dove non si distingueva nulla, nemmeno i fantasmi.
Quel che si vedeva era l'interno d'un chiostro.”
(Victor Hugo, I Miserabili, Tomo primo, Einaudi 2004)
Una curiosità letteraria, vista l’immensa notorietà che il pessimo romanzo di Dan Brown “Il Codice da Vinci” ha donato ai luoghi in cui è ambientato il libro: l’ordine nacque a causa della profanazione del S. Sacramento sull’altare di due chiese parigine, avvenuta nel 1649.
Una era la Chiesa di st. Jean-en-Grève, l’altra è uno dei luoghi simbolo del romanzo, la Chiesa di Saint Sulpice, quella dove si troverebbe la Linea della Rosa e che, secondo la fantasia dello scrittore (ma andatevi a leggere, allora, Il Santo Graal di Baigent, Leigh e Lincoln, come saggio storico fa ridere i polli, ma come romanzo è decisamente migliore dell’altro), sarebbe indissolubilmente legata al Graal, al Priorato di Sion e al gran segreto custodito da due millenni.
Tra l’altro, secondo Baigent e soci, lo stesso Victor Hugo risulterebbe nell’elenco dei Gran Maestri del Priorato di Sion, dal 1844 al 1885, compreso il periodo in cui scriveva i Miserabili… con un po’ di fantasia se ne potrebbe ricavare, da questo connubio Priorato di Sion-monastero di clausura-profanazione di Saint Sulpice-Miserabili, Santo Graal e adorazione Perpetua, un romanzo sicuramente migliore di quello di Brown (magari erano le monache di clausura del PicPus, in cui nessuno poteva entrare, a custodire un segreto così importante da essere degno dell’Adorazione Perpetua, e quindi vegliato e sorvegliato 24 ore su 24?
Umberto da Eco, da par suo, ne tirerebbe fuori un altro capolavoro come Il Pendolo di Foucault).
Questo convento ferrarese, al contrario della descrizione oscura ed inquietante dei Miserabili, è un’oasi incastonata nel verde, tra orti e giardini e cespugli in fiore, ed ispira solo un senso di pace e tranquillità.
Per entrare, si deve suonare ad una vecchia porta, da cui un’anziana monaca vi scruterà, attraverso la grata (e qui ho avuto un dejà vu clamoroso, ricordandomi le parole del romanzo) e, se è il caso, vi accompagnerà a vedere per prima cosa il corpo della beata fondatrice, rinchiuso in una teca di vetro, e poi alla bellissima cappella, con coro in legno scolpito del Trecento che viene tutt’ora usato, e 3 cappelle con affreschi gotici, della scuola di Giotto, molto simili a quelli di Assisi.
L’accesso al resto del convento, i giardini, il chiostro, è interdetto, essendo un convento di clausura, le monache hanno un permesso speciale solo per far visitare la Chiesa e accompagnare i turisti.
Uscita dal convento, per siglare degnamente questo bel viaggio, ho deciso di concedermi un lussuoso pranzo, uno vero, al posto degli spuntini rimediaticci dei giorni scorsi.
Della cucina ferrarese ho assaggiato poco, devo ammetterlo. Quando viaggio, solitamente sono abbastanza frugale, raramente mi concedo delle lunghe soste al ristorante, e meno di non essere in compagnia.
Più facilmente mi fermo in una pasticceria o in una panetteria, mi compro un dolce o un pane particolare, del succo di frutta, e mi accomodo in un posto bello, magari in mezzo al verde, su una panchina al sole caldo, e mi godo fino in fondo il momento, mescolando il piacere dei sapori con quello della vista.
Stavolta, per il primo pranzo, appena arrivata, dopo una breve pausa in locanda per mollare i bagagli e disfare brevemente quel poco che mi sono portata, mi sono infilata in una anonima gelateria, che però aveva il pregio di essere vicina al B&B e di avere dei tavolini al coperto a cui sedersi: sotto una pioggia battente, non avevo voglia di gironzolare alla ricerca di qualcosa di più elaborato anche se, invero, il freddo con cui mi ha accolto la città non è che invitasse proprio ad un pranzo a base di gelato. Però mi bastava che fosse vicino e all’asciutto.
E poi mi ero resa conto che m’era presa una voglia inusuale, almeno per me: una coppetta nocciola e pistacchio. Inusuale perché non prendo mai la coppetta, che mi sa tanto di gelato confezionato un po’ tristanzuolo, (quelli che tanti anni fa si prendevano al bar per mangiarli a casa, te li davano in una bustina di carta con una fila di cucchiaini di plastica, e c’erano solo due gusti, fragola e limone oppure panna e cioccolato): adoro invece il rumore scrocchiarello della cialda che si sbriciola sotto i denti, per me il vero gelato è il cono, un cono lussureggiante di colori e di panna, non c’è proprio storia (a meno di non andare da Giolitti al laghetto dell’Eur e concedersi una di quelle coppe megagalattiche, che bastano per pranzo e cena).
Nocciola e pistacchio, poi, che orrore…quanto tempo sarà che non mangiavo questi gusti?
Poi mi sono ricordata di quando ero piccola, prima che uscissero queste megagelaterie, con le vasche rigonfie di gusti esotici e creme stravaganti.
All’epoca il gelato sfuso si vendeva nei Bar Pasticceria, solo lì e solo d’estate, quando veniva tirato fuori all’uopo un piccolo frigorifero, c’erano con due o tre misure di cialda ( il cono più piccolo costava 150 lire, se non mi ricordo male, quando arrivò a 500 cominciammo a scuotere la testa, commentando “ che tempi, ma dove andremo a finire?”), ed i seguenti gusti, rigorosamente questi: fragola, limone, crema, cioccolato, nocciola e pistacchio (qualche volta anche la stracciatella, ma non sempre), a pasta densa, di colore pallido, spento, senza pezzi di frutta, sciroppi e abbellimenti vari, simili in qualche modo ai gelati sovietici che ho assaggiato anni più tardi, quelli ancora più pallidi e austeri, venduti dentro baracchini di vernice bianca scrostata, avvolti in tovagliolini di carta velina smerlata e dal sapore indefinibile, vagamente vegetale.
Se poi si voleva un gelato un po’ meglio, allora si arrivava fino al bar di san Callisto, proprio accanto a Piazza Santa Maria in Trastevere, che faceva un cioccolato speciale, scuro e profumato, una vera delizia (questo minuscolo bar è tuttora rinomato per il suo cioccolato, se passate da là non fatevi influenzare dall’ambiente semplice e un po’ dimesso).
E la panna, panna vera, non quella spremuta da una macchinetta, veniva conservata a parte, in un contenitore di metallo alto e stretto, ed adagiata delicatamente sul cono con un cucchiaio di legno.
Verso la fine degli anni settanta-primi Ottanta, con mia madre prendemmo l’abitudine di fare una passeggiata, sotto Natale, a Via del Corso, a vedere le vetrine addobbate e magari comprare gli ultimi regali, e divenne tradizione concederci un gelato in un lussuoso bar di Via della croce, un gelato a dicembre, una stravaganza delle più manifeste, a quei tempi.
Ora, ovviamente, non è più cosi, le gelaterie sono spuntate dappertutto come funghi ed il gelato si mangia tutto l’anno, estate ed inverno ma, come dice saggiamente Nanni Moretti: ora ci sono le fragole tutto l’anno, le ciliegie tutto l’anno…ma che ricordi avranno questi bambini?
Passeggiando sotto un bel sole caldo, finalmente, ho incontrato sulla mia strada un ristorante sulla medievale Via delle Volte, forse la via più bella della città, assieme al Corso Ercole I. L’esterno mi stuzzicava molto, con la sua insegna in ferro battuto e i vasi pieni di fiori e di verde, e allora ho pensato che come ultimo saluto a Ferrara sarebbe stato perfetto.
Il Mandolino, questo il nome, è un ambiente veramente caratteristico, con le pareti piene di quadri, tele, stampe e specchi, nature morte, le eleganti dame di Boldini, mazzi di fiori, ventagli, spartiti musicali che ricoprono fino al soffitto a cassettoni, arredi in legno scuro di gusto country, pavimenti in cotto, credenze piene di bicchieri, arredi in ferro battuto, lampade e bugie, strumenti musicali, il tutto in una allegra e affascinante mescolanza, che rendono questo posto caldo e accogliente, ancor di più per la familiarità con cui viene accolto il cliente.
Nonostante sia ora di pranzo, sono ancora l’unica cliente, e chiedo di poter fotografare il posto.
La proprietaria è una signora gentile e molto orgogliosa del suo ristorante, che ha curato in ogni minimo particolare, ed è contenta della mia curiosità e del mio interesse. Cominciano ad arrivare altri clienti, ed arriva anche la mia ordinazione, è ora di riporre la macchina fotografica, ma non senza aver immortalato quello che ho ordinato, alla luce soffusa delle lampade.
Qui finalmente ho avuto occasione di assaggiare uno dei piatti tipici di Ferrara, i famosi cappellacci alla zucca, dei grossi tortelli ripieni, conditi con sugo oppure burro e salvia: qui i cappellacci sono fatti a mano uno per uno , dalla cucina escono vassoi di questi tortelli appena fatti, cosparsi di semolino. (l’unico appunto che posso muovere a questo posto è che le porzioni, almeno per il mio appetito, non sono proprio abbondanti…anche se è la regola vorrebbe che un vero gourmet non si abbuffa mai, però…).
Ho assaggiato anche la coppia ferrarese, il pane tipico dalla forma curiosa, a quattro cornetti, la mollica morbida e l’esterno liscio e scrocchiarello, anche se sinceramente preferisco un tipo di pane più rustico, meno raffinato.
E per finire un’altra specialità, la torta tenerina al cioccolato, una specie di caprese bassa, spolverata con zucchero a velo e, in questo caso, accompagnata da crema fatta in casa ancora calda, gialla e densa, che si sposa a meraviglia col gusto pastoso della torta.
Le ultime ore nella città, uscita dal ristorante, solitamente sono quelle più noiose: il bagaglio, chiuso, è in deposito al B&B, si conta il tempo che rimane, passeggiando un po’ a caso, senza allontanarsi troppo, anche capitando in posti già visti ma a cui è bello dare un’ultima occhiata, magari col sole, dopo tanto grigiore...
E poi, alla fine, viene l’ora della partenza.
A questa città che mi ha accolto con generosità, con i suoi colori caldi e le sue persone gentili, le sue strade tranquille e gli incontri inaspettati, la bellezza che pervade ogni scorcio e la grazia con cui accompagna i suoi visitatori, un ultimo sguardo d'addio.
O, forse, solo un arrivederci.
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Che belli, i tuoi post su Ferrara.. non vedo l'ora di ritornarci! -)
RispondiEliminaPS: grazie per aver condiviso mozioni e ricordi.
che reportage spettacolari!!!
RispondiEliminabellissimo vedere ferrara attraverso i tuoi occhi e le tue emozioni
bacioni ;)
Grazie a te per avermi sopportato, Elle!
RispondiElimina:-)
Baci a te, Mirtilla, è un modo per conoscere posti nuovi anche senza andarci...perchè non ci fai vedere qualcosa della splendida città dove vivi? Io non l'ho mai vista, ma so che è meravigliosa!!
Bellissimo il racconto e bellissime le foto. Le tue parole sulle gelateria hanno riacceso in me vecchi ricordi :-)
RispondiEliminaGrazie!
Ogni tanto, ripensando a quegli anni sicuramente più austeri, mi viene una nostalgia...eravamo più felici del poco che si aveva, secondo me ora non sappiamo più apprezzare neanche un gelato, perchè è sempre disponibile...mah!! Mi sa che stiamo invecchiando...
RispondiEliminaNon ho mai visitato Ferrara ma dopo aver letto i tuoi post ci andrò di sicuro.
RispondiEliminaSei meglio di una guida turistica!
Che belle le foto dei micioni, a me piaciono tanto =)
E' un piacere leggerti e lasciarsi travolgere dal morbido incedere delle tue parole, in un attimo ci siamo ritrovati a Ferrara, città poco distante da Bologna, dove spesso ci rechiamo anche solo per una passeggiata ed un caffè.
RispondiEliminaMolto belli i tuoi scatti, lasciano una scia poetica.
Un abbraccio e buon inizio settimana
Sabrina&Luca
Cara Geillis, splendido racconto di viaggio! Grazie per averlo condiviso, complimenti, come sempre. Bargeld
RispondiEliminaGrazie Bargeld, grazie a te per averlo letto
RispondiElimina:-)
@ Luca e Sabrina: siete fortunati ad abitare da quelle parti, è proprio una bella zona, piena di arte, pulita, persone gentili, mi sono trovata veramente bene!
@ Eli: quei mici erano fantastici, curiosissimi anche se timidi, il gatto sembrava stesse in posa per farsi fotografare
:-)
ciao!che avventura per finlmente poter lasciare un messaggio...non arrivavo mai!
RispondiEliminaComplimenti per l'articolo ele foto, ferrara è bella, comme tutta l'Italia!
mi manca un po'...devo fare un viaggetto!
il tuo blog mi piace molto, ripassero'presto!!
baciotti
Leggendo e guardando le foto mi sembrava di essere con te a Ferrara, ad osservare ed ammirare particolari che forse da sola non avrei notato. Complimenti, tu riesci a vedere cose che sicuramente non tutti vedono.
RispondiEliminaUn abbraccio.
Ciao Laura sono tornata ieri da Parigi ed ho seguito il tuo itinerario (tranne che per il cimitero di Pere-Lachese...quando sono andata era già chiuso..che peccato!!)è una citta davvero splendida, sono rimasta affascinata soprattutto da Notre Dame e dalla Conciergerie!!Magari ti racconterò in maniera più dettagliata e ti faccio vedere anche qualche foto che ho scattato. A presto e grazie ancora per i consigli!
RispondiElimina@ Romy: sono veramente contenta che ti sia piaciuta, sono curiosa di sentire le tue impressioni!
RispondiEliminaGrazie Cannelle, ci provo a vedere le cose con occhio diverso, se ci sono riuscita sono strafelice!!!
Grazie Nini, ti aspetto
non ti dico nulla solo che mi piace tanto! un abbraccio
RispondiEliminaCome mi spiace che il tuo racconto di viaggio sia finito! E' una delizia leggerti, sono pagine bellissime piene di emozioni, sensazioni, profumi, suoni e rumori e anche colori. Queste pagine saranno una guida preziosa per una visita in questa bella città, magari al primo rosseggiar dell'autunno.
RispondiEliminaHai veramente il dono della comunicazione, Geillis. Grazie!
E a me dispiace esserci rimasta solo 4 giorni...per vostra fortuna, altrimenti avrei scritto un romanzo a puntate
RispondiElimina:-))
Grazie per la passione con cui leggi i miei racconti
@ Lo: un abbraccio anche a te
Ciao Laura,
RispondiEliminaoggi mi riprometto di cominciare a leggere i post sul tuo viaggio a Ferrara. Sono molto curiosa!!!
...e poi chissaà magari ci scappa uba gita sulla scia delle tue emozioni!!!
Un abbraccio
Francesca
Ciao Laura,
RispondiEliminaoggi mi riprometto di cominciare a leggere i post sul tuo viaggio a Ferrara. Sono molto curiosa!!!
...e poi chissà magari ci scappa una gita sulla scia delle tue emozioni!!!
Un abbraccio
Francesca
Ferrara è la città che adoro; ricordo le passeggiate a piedi ma anche in bicicletta, lungo le mura e dal Castello Estense in poi. Il Museo Boldini, tappa d'obbligo, come il Palazzo dei Diamanti ma anche il Ghetto, l'unico ambiente che mi abbia fatto perdere il mio acutissimo senso dell'orientamento.
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