I miei viandanti

lunedì 31 marzo 2008

Acquarello

Dipingere è un'altra delle mie grandi passioni: non che sia Monet, è ovvio, però mi piace da sempre pasticciare con pennelli e colori, matite e carboncini, colori per il vetro e così via.

Tanti anni fa ho provato con l'olio, con dei risultati disastrosi, e stavo per abbandonare tutto: poi mi è capitato di fare un corso professionale della Regione di Restauro di Tele Antiche, della durata di un anno: come risultati pratici non mi è servito a nulla, però ho imparato a disegnare meglio e, soprattutto, la tecnica dell'acquarello.

Per un certo periodo ho dipinto con una certa costanza, poi per qualche anno più niente, nonostante abbia una bella scatola di costosi colori Cotman.

Ed invece mi sono rimessa all'opera, ed ecco il risultato, la mia Titti: non è bellissima?

Questi sono degli studi di oggetti che ho copiato come esercitazione da alcuni libri di acquarello.


Ed eccolo, il primo dipinto che ho fatto, tanti anni fa, il bel Koko in tutta la sua bellezza felina (meno male che ho affinato la tecnica, con gli anni...)

Come si sarà capito, i gatti sono il mio soggetto preferito, seguito dai fiori, paesaggi (ma ancora non brillo, come paesaggista), per il resto sono assolutamente negata.

sabato 29 marzo 2008

Crostata di mele con frolla all'olio

Innanzi tutto volevo esprimervi la mia soddisfazione per gli apprezzamenti che mi avete lasciato sui post precedenti: sapere che qualcosa passa, attraverso le mie parole e le mie immagini, un'impressione, un'emozione, un ricordo, di luoghi in cui ho lasciato un pezzo di cuore, me li fa sentire più vicini, ancora più preziosi. Il fatto poi che i miei ricordi interessino a qualcuno, non può che confortarmi: quelli che mi conoscono bene, primi fra tutti mio marito, non ne possono più di riascoltarli, e allora mi sfogo con voi!
:-)

Oltre questo, una piccola premessa prima di passare alla semplice ricetta di oggi: sabato scorso ho letto, con molto strazio, il lungo articolo di Jenner Meletti su la Repubblica, intitolato: NELLA FABBRICA DELLE UOVA, IL BUSINESS DELLE GALLINE SCHIAVE, e ne sono rimasta inorridita.

Non perchè non fossi a conoscenza dei metodi BARBARI e CRUDELI con cui vengono trattate le galline ovaiole (giorni prima c'è stato anche un servizio al TG), io sono vegetariana da anni e ho visto coi miei occhi i metodi di allevamento degli animali, ma perchè leggere nero su bianco questa barbarie mi ha fatto sentire veramente male.

Voglio riportarvi qualche frase solo per sottolineare tutto l'ORRORE di cui possono essere capaci gli uomini: le galline vengono tenute in gabbie di batterie delle dimensioni di un foglio A4, a pochi mesi subiscono la mutilazione del becco con una lama incandescente, per evitare che possano diventare cannibali ( nelle gabbie possono impazzire). Ci rimangono per dodici, tredici mesi, a covare uova fino allo sfinimento, poi escono per essere portate al macello.

Beh, questa descrizione mi ha fatto letteralmente inorridire, non ho parole per esprimere la mia rabbia, ed il peggio è che non c'è nessuna legge che probisca questa BARBARIE, indegna di un paese civile (ma questo lo è? Spesso me lo chiedo). Nel 2012 gli allevamenti dovranno adeguare la larghezza delle gabbie alle nuove normative della Comunità Europea del 1999, che sono di poco più grandi di quelle di adesso, e questo è tutto.

Allora, visto che i nostri governanti sono presi da tutt'altro tipo di problemi (tipo vincere le elezioni e così via) e ci fosse stato uno straccio di politico, di ministro o chi per lui, a prendersi a cuore la sorte di animali che, ricordiamoli, sono trattati da oggetti, allora forse noi, nel nostro piccolo, una piccola forma di protesta potremmo attuarla: non che cambi la vita a quei signori che con le galline si arricchiscono, ma magari non comprare le uova prodotte da galline prigioniere potrebbe servire a qualcosa (magari a farci stare meglio a noi).

Sulle confezioni delle uova è obbligatoria l'indicazione di origine, e su ogni uovo ci sono stampigliati numeri e lettere: lo 0 indica uova da agricoltura biologica, 1 allevamento all'aperto, 2 le uova da allevamento a terra, 3 Uova da allevamento in gabbia. Esempio: 0 IT 019 fo 138 (ho tratto l'esempio da una confezione di uova da agricoltura biologica Tebaldi), dove il primo 0 sta per agricoltura biologica, IT per lo stato di produzione, 019 codice ISTAT del comune, FO la provincia e 138 il codice dell'allevamento.

Visto che le uova costano relativamente poco, spendiamo qualche centesimo di più e BOICOTTIAMO le uova ottenute con metodi crudeli!

Scusate lo sfogo, ma questa cosa mi era rimasta proprio qui...

Ed ora passiamo ad argomenti meno orribili, vi propongo ancora una ricetta con le mele, visto che la primavera finalmente sembra che stia arrivando ma le bancarelle dei mercati ancora traboccano di mele di tutti i colori, succose e profumate!
Ho provato la ricetta della crostata con la frolla all'olio, facendola con le mele, e questo è l'appetitoso risultato:
L'unica accortezza è di inumidire bene la pasta e le mele con la marmellata liquida, perchè questa frolla cresce ed assorbe il sugo delle mele, potrebbe risultare un po' troppo secca, al contrario della frolla normale che si ammolla.

Per la frolla all'olio, ho riutilizzato la ricetta trovata sul sito di Cocò e Grazia, vi rimando sia alle loro pagine che al mio post con le fotografie.

Riporto brevemente gli ingredienti:

  • 280 grammi (io ne ho messi 300) di farina, più a raccogliere
  • 2 uova intere
  • 100 ml di olio di oliva
  • 100 grammi di zucchero
  • mezza bustina di lievito
  • Limone grattugiato, o vanillina, o liquore (per coprire il sapore un po' forte dell'olio)
Oltre a questo, ho usato circa 300 grammi di marmellata di arancia e tre mele grosse (o quattro, non me lo ricordo)

Ho fatto la frolla, tranne qualche pezzetto per il cordone finale, ricordatevi che è molliccia e va stesa con le mani, non col mattarello.

Stesa la pasta sulla teglia da 26-28 centimetri, ho sciolto la marmellata con un po' d'acqua e un goccio di Strega.

Ho cosparso la frolla di marmellata, vi ho adagiato per benino le fette di mela, mettetene parecchie e molto strette, poi ho aggiunto un cucchiaio di farina alla pasta rimasta e ho fatto il cordone con cui ho finito la torta,
quindi ho diluito ancora la marmellata, fino a renderla quasi liquida, e ho velato bene tutta la superficie.

Infornato nel forno caldo a 180 gradi per circa 35 minuti-40 minuti, mi ci è voluto qualche minuti in più della crostata normale (ripiano centrale del forno), poi un paio di minuti di grill elettrico per colorare la superficie.

martedì 25 marzo 2008

Passeggiate romane: a spasso per Trastevere

Gli ultimi post sono stati quasi tutti di ricette e dolci, ho un po’ tralasciato sia Parigi che altri argomenti, ma insomma, la mia vita mica è fatta solo di quello!

Per cui, riprendo con qualche piacevole passeggiata, stavolta non per Parigi (di cui ancora ho tanto da dire, peraltro) ma per Roma, continuando sulla scia del Post su Porta Portese: voglio far conoscere un po’ meglio, a chi non è di queste parti, quel meraviglioso quartiere che è Trastevere. Ovviamente non voglio fare la guida tustistica, per quello potete comprarvi quella del Touring che sicuramente è più completa e dettagliata. E’ ovvio che, avendoci abitato per quasi trent’anni, ogni angolo, piazza, negozio è legato a dei ricordi, degli aneddoti, e non potrò evitare di raccontarveli, mi spiace.

Chi è di Roma conosce principalmente Trastevere perché è pieno di pizzerie e locali, ed è un peccato, perché Trastevere è molto di più.

Innanzi tutto, è il mio quartiere, e questo già basterebbe. Inoltre, è un luogo pieno di storia, misconosciuta ai più, soprattutto a quelli che lo animano di notte, e sono completamente all’oscuro della sua lontana origine e delle trasformazioni che ha subito nell’arco di quasi duemila anni di storia.


Solo un paio di accenni alla storia del rione, che nasce in epoca romana come quartiere periferico e commerciale (Trans Tiberim), abitato prevalentemente da immigrati di origini orientali: di questo passato rimane ben poco, tranne i resti della VII coorte dei Vigiles, su Viale Trastevere e una latrina romana sul Gianicolo (l’ho letto su un libro, ma non so dov’è, sorry, ma se vi interessa mi informo).
Nei primi secoli dopo Cristo vi sorsero alcune importanti chiese, come Santa Maria in Trastevere (che è l’argomento del post), San Crisogono e S. Cecilia, splendidi esempi di architettura romanica. Per tutto il Medioevo vi fu una fiorente comunità ebraica, che poco più tardi si trasferì dall’altra parte del Tevere, a poca distanza, in quello che ancora adesso viene chiamato il Ghetto, e in cui gli ebrei furono segregati fino alla presa di Porta Pia.

Di epoca medievale non rimane quasi nulla, tranne qualche sporadico resto, difficile da individuare, incastonato perfettamente nell’ impianto secentesco del rione, caratterizzato da vicoli stretti, palazzi di pochi piani, strade selciate piuttosto sconnesse, cantine, vecchie stalle, abitazioni con finestre piccole e soffitti molto alti. Tutta la zona, però, fu pesantemente rimaneggiata alla fine dell’Ottocento, interventi devastanti che stravolsero tutto l’assetto urbanistico del quartiere, a partire dallo sventramento per la costruzione del Viale del re, oggi Viale Trastevere, una lunga strada stile boulevard che dal fiume arrivava fino alla nuova Stazione ferroviaria di Trastevere.

Questo taglio ha diviso in due il quartiere, dando il via ad una serie di trasformazioni che ne hanno alterato profondamente sia la topografia che l’ampiezza, ed infatti molte delle parti che noi consideriamo tipiche, come la salita al Gianicolo (Via Goffredo Mameli, via Enrico Dandolo ), Piazza San Cosimato, il quartiere Mastai, risalgono solo alla fine dell’Ottocento: anche lo stile dei palazzi è piuttosto diverso, uniformandosi allo stile che i piemontesi portarono a Roma per la costruzione dei grandi assi di scorrimento della città (Corso Vittorio, Corso Rinascimento, Via Nazionale etc…)


Tutta la parte verso il Gianicolo, invece, ebbe sempre un carattere campestre, suburbano, con grandi ville e giardini fin dall’età Romana. Questa tradizione continuerà anche in epoche più recenti con la costruzione , in epoca rinascimentale, della Farnesina e di Villa Corsini. Tutt’ora vi è collocato l’Orto Botanico e l’ottocentesca Passeggiata del Gianicolo, da cui si gode un bel panorama della città (sorvoliamo sul fatto che in questa zona la sera ci sono macchine parcheggiate un po’ ovunque, e non per ammirare il panorama).

Diciamo, comunque che, della Trastevere che poteva vedere Ettore Roesler Franz, e che ha ritratto nei suoi celebri acquerelli della Roma Sparita, noi possiamo ammirare una minima parte, purtroppo. Ma le trasformazioni di Trastevere non si limitano alla topografia e la toponomastica.

Fin dall’antichità, questa zona non ebbe mai un carattere residenziale, di lusso, anzi: il suo carattere schiettamente popolare rimase una caratteristica del quartiere fino a tempi recenti, diciamo fino alla fine degli anni Settanta: la tipologia del trasteverino è andata radicalmente trasformandosi solo da trent’anni a questa parte.

Ancora negli anni Settanta, l’aggettivo trasteverino non era proprio un complimento, i veri trasteverini essendo popolani dal dialetto spinto e modi piuttosto rozzi (e lo dico con cognizione di causa, visto che ero bambina, in quegli anni, e me lo ricordo bene). Bande di ragazzini imperversavano per i vicoli, giocando a palla, a campana e ad elastico per strada (mia madre non voleva che rimanessi tutto il giorno per strada con loro, che mi mescolassi alla plebe, ma era l’unico modo di giocare, essendo da noi i giardini e i parchi non proprio vicinissimi).

A partire dagli anni Novanta, i veri trasteverini cominciarono a lasciare il rione per trasferirsi altrove, lasciando posto ad un nuovo genere di abitanti, quasi sempre alta e media borghesia, professionisti, commercianti, e i prezzi delle case cominciarono a salire, le vecchie botteghe a chiudere, e proliferarono pizzerie e locali.

Oggigiorno, il quartiere popolare e verace di allora si è trasformato in un’immensa sala gioco, in cui nuovi locali di tendenza spuntano come funghi (una mia amica sostiene che c’è addirittura un locale di scambisti vicino al convento dove ho fatto le scuole, vorrei sapere come l’ha saputo). Aggirarsi per i vicoli di Trastevere la sera è come immergersi in un girone infernale, l’intero quartiere è invaso da una folla sporca, rumorosa e invadente, fino a tarda notte.

In tutto questo, nonostante l’invasione di turisti e nottambuli, le bellezze architettoniche della zona, a parte qualche recente intervento di restauro (Piazza San Cosimato, ad esempio), sono state trascurate in maniera vergognosa: invece di pulirlo e lustrarlo come un gioiello, l’intero rione è praticamente abbandonato a sé stesso, con palazzi fatiscenti dalle facciate scrostate, muri cosparsi di scritte e macchine parcheggiate creativamente ovunque, per non parlare dell’invasione serale di venditori ambulanti, stile suk del Cairo.


Non voglio sembrare una vecchia brontolona ma, per me che ricordo quegli anni, la volgarizzazione progressiva del quartiere è veramente una profanazione! Insomma, lasciatemi brontolare un po’, sguazzando nella visione idilliaca della mia Trastevere…

Tutto questo lungo e nostalgico preambolo, per cominciare il nostro giro turistico (che durerà un bel po’, purtroppo per voi) alla scoperta degli angolini più nascosti di questa bellissimo e fatiscente rione.
E allora cominciamo dalla perla del quartiere, Piazza Santa Maria in Trastevere e l’omonima Chiesa, la prima basilica sorta a Roma, nel IV secolo dopo Cristo.


A questa piazza sono personalmente affezionatissima: abitando da queste parti, ci sono transitata mediamente almeno due volte al giorno per circa undici anni in direzione Via della Lungaretta (andavo a scuola al Convento di Santa Rufina, dai tre ai quattrodici anni), e in seguito in direzione Via Giulia, Liceo Virgilio, per i successivi cinque.

La fontana al centro della piazza sembra risalga addirittura all’epoca di Augusto (non in questa posizione, però), fu rifatta a varie riprese, ma l’impianto attuale è della fine del Seicento; pesantemente restaurata nell’Ottocento, è formata da una vasca ottogonale con conchiglie, su progetto dell’architetto Carlo Fontana.
Se fosse piena sarebbe anche più bella, ma non si può avere tutto dalla vita.




Come si vede dalle immagini, la mia presenza in questa piazza è stata decisamente assidua.


Questa bella fontana è stata più volte considerata degna di fare da sfondo ai miei ritratti, come si può vedere dalle varie foto scattate da mio padre con la 6 per 6 (se poi avesse azzeccato le inquadrature, le foto sarebbero state anche più belle).



Oggigiorno la piazza non ha perso nulla del suo fascino.
Evitando come la peste la folla delirante che l’invade la sera, il giorno (e soprattutto la mattina) è ancora bella e quasi deserta com’era quando, con la cartella in spalla, mi trascinavo verso le mie sudate carte.
L’impianto della piazza risale al Seicento ma conobbe numerosi interventi di restauro fino al Novecento: questo imponente palazzo è denominato di San Calisto (dalla Chiesetta posteriore a cui è appoggiato, invisibile dalla piazza), quello in fondo, dipinto di un improbabile color celestino, è il cinquecentesco Palazzo Leopardi, restaurato in anni recentissimi.
Io, infatti, me lo ricordo fatiscente e scrostato, ma decisamente di un altro colore…

A questo bel palazzo sono legati alcuni ricordi particolari dei miei anni alle elementari. Alla sinistra del portone, infatti, vi era aperta una botteguccia di fiori e piante, davanti alla quale io e la mamma passavamo ogni mattina per andare a scuola (per la cronaca eravamo sempre in ritardo perché, essendo io una gran dormigliona, mi ci doveva trascinare a forza, a scuola). Spessissimo ci fermavamo dalla fioraia per comprare un mazzo di anemoni e fresie, di garofani giapponesi, oppure una piantina fiorita, da portare alla mia maestra, suor Consilia.
E’ evidente che allora i fiori non dovevano avere i prezzi esorbitanti che hanno oggi, altrimenti saremmo andati in fallimento. Ancora oggi, quando vedo un mazzo di anemoni e fresie, mi ricordo di quella signora e dell’odore umido di quella bottega un po’ spoglia, coi soffitti alti e le pareti imbiancate a calce.

In seconda elementare ebbi come compagna di banco una bambina di nome Donatella, che abitava proprio in questo palazzo: non perché fosse ricca, ma perché all’epoca era un brefotrofio, proprio così. Non sto parlando dell’epoca di Oliver Twist, ma del 1976: era un orfanotrofio gestito da suore, anche se Donatella non era orfana. Venne parcheggiata lì, credo su sentenza del tribunale, perché i genitori erano separati e stavano divorziando: a scuola questa notizia veniva sussurrata sottovoce, essendo ritenuto piuttosto infamante essere figli di separati, quasi un segreto da custodire con vergogna. Donatella ci rimase pochi mesi, tanto che l’anno dopo cambiò scuola e non ne seppi più nulla, ma col senno di adesso mi pare impossibile che nell’anno del Signore 1976 ancora fossimo così arretrati.

In ogni caso, come in un libro lacrimoso di orfani abbandonati, le suore che avevano in gestione il convento erano piuttosto terribili, e il posto alquanto triste (almeno questi erano i racconti della mia amica). Ovviamente un brefotrofio non può essere un posto allegro, ma chissà come se lo viveva la poverina…una cosa che ancora mi rimane profondamente impressa è la sua merenda, consistente in due tristissime fette biscottate con un sputo di nutella sopra, veramente un’ombra.
A casa mia, invece, mia madre sfornava fior di crostate delle dimensioni di una ruota di carretto, e io mi portavo per merenda fette enormi grondanti marmellata e pezzi di ciambelloni morbidi e profumati avvolti nella stagnola (infatti i risultati si notano a tutt’oggi). Avendo io raccontato a casa delle tristi merende della mia amica, mia madre provvedeva a mandare anche per lei una fetta di dolce.

Ed eccola, la bella chiesa Romanica (per un tour virtuale completo vi consiglio il sito
http://www.santamariaintrastevere.org/)


La fondazione risale addirittura al IV secolo dopo Cristo, sul luogo dove, narra la leggenda, si ebbe nel 38 avanti Cristo una prodigiosa eruzione di olio dal terreno(forse petrolio).

La basilica conobbe numerosi a sostanziali cambiamenti nell’VII, XI, XII e XIII secolo, nonché nel Seicento, Settecento, Ottocento e poi nel Novecento, uno allora ci si chiede cosa ci sia rimasto di originale, soprattutto dopo i pesanti interventi del Vespignani nell'Ottocento. Ma forse la sua bellezza sta proprio nella mescolanza di periodi e materiali...

Diciamo subito che della facciata sono del XIII secolo i mosaici della madonna e le Vergini, il campanile è romanico, mentre il portico è del 1702, ad opera dello stesso architetto della fontana.

Passeggiate Romane: Santa Maria in Trastevere

L’atrio della basilica è dello stesso architetto, Carlo Fontana: nelle mura vi sono incastonati pezzi di epigrafi romane e cristiane provenienti da catacombe e siti vari, un sarcofago strigilato sempre di epoca romana, l’affresco dell’Annunciazione che risale al Quattrocento.

Anche gli stipiti dei tre grandi portali sono romani (nelle foto se ne vedono solo due, quelli laterali).


L’interno è ampio, buio e affascinante: il bel soffitto ligneo, risalente al Seicento, è stato realizzato dal Domenichino, ed è a cassettoni di legno dorato. Il pavimento cosmatesco è in marmi pregiati, ma si tratta di un rifacimento dell’Ottocento.

Le ventidue enormi colonne di granito sono di epoca romana, come molti altri materiali della basilica, per la massima parte provenienti dalle Terme di Caracalla.

Anche a questa chiesa sono legati dei curiosi aneddoti: la chiesa, infatti, era gemellata col mio convento, il quale aveva sì una cappella privata (modernissima, tutta di marmo bianco) in cui le suore ci portavano spesso, anche come premio se finivamo presto i compiti, ma nelle grandi occasioni venivamo portati, in fila per due, irreprensibili nella nostra divisa celeste, nella grande basilica.


Nei primi anni delle elementari il parroco era un vecchio prete un po’ rimbambito, di cui non si capiva nulla quando recitava la Messa fino a che venne, ad affiancarlo, un giovane sacerdote, alto, bruno e simpatico, Don Vincenzo. Doveva essere, credo il 1978, o giù di lì, perché la Comunione l’avevamo già fatta: andavamo a confessarci dal giovane sacerdote, tutte in fila, ragazzine di dieci, dodici anni, molto solerti nello snocciolare i nostri peccatucci, che più o meno erano sempre gli stessi: ho risposto male alla mamma, ho detto una bugia alla maestra, mi sono arrabbiata con la mia amica etc…

Io ci mettevo molto impegno a raggranellarne qualcuno interessante, tanto da meritarmi una bella penitenza (sennò, che gusto c’è?), per cui la mia bella dose di Ave Maria e Pater Noster da recitare don Vincenzo me li appioppava sempre.
Una cosa che mi ricordo benissimo, è la crisi di ansia che mi prendeva poco prima di sedermi al confessionale, di non ricordarmi tutto l’Atto di Dolore, che solitamente sapevo benissimo, ma quando era il momento di recitarlo attraverso la grata me ne perdevo sempre qualche pezzo, l’ansia da prestazione, credo (nella foto sotto, il confessionale dove noi, timide educande, andavami a confessarci, credo sia rimasto sempre lo stesso).

Comunque, il giovane e simpatico prete (non male, devo dire la verità, tutte noi eravamo inconsciamente affascinate da lui) a cui raccontavamo i nostri segreti, diventò molto famoso, negli anni seguenti: e non solo per essere diventato parroco una volta defunto quello precedente, ma perché divenne uno dei personaggi di spicco della Comunità di Sant’Egidio.

E’ stato don Vincenzo Paglia, infatti, ad aprire le porte della basilica per il famoso Pranzo di Natale dei barboni, e lui ad ospitare nei locali della canonica le riunioni e gli incontri dei ragazzi di Sant’Egidio.

Il mio incontro con la comunità di Sant’Egidio avvenne più tardi, nel 1984. Nel frattempo avevo finito le medie al Convento, ed ero passata al laico Virgilio, notissimo liceo romano piuttosto di sinistra.
Una mia compagna di classe aveva cominciato a frequentare i gruppi di preghiera che si riuniva proprio nei locali di Santa Maria, mi chiese di accompagnarla, e per un anno frequentai assiduamente un gruppo che si riuniva il giovedì.

Tutto questo accadde prima che diventassi atea e anticlericale, è ovvio. O forse è stata una conseguenza, chissà…
Comunque, ora, a tanti anni di distanza, don Vincenzo Paglia è Vescovo di Terni, mentre la Comunità di Sant’Egidio prospera ancora in questa bella Chiesa.

Ma non divaghiamo, e proseguiamo il nostro giro, partendo dal fondo:

Sulla navata laterale sinistra la cappella Avila, in stile borrominiano, con lanterna sorretta da angeli e tabernacolo con finta colonnata prospettica e un San Girolamo in stile caravaggesco (almeno secondo me).



Più avanti, dei resti medievali in stile gotico, tra le pochissime cose rimaste a Roma in questo stile: pochi sanno, infatti, che l’unica chiesa gotica rimasta a Roma è Santa Maria Sopra Minerva, accanto al Pantheon. Quella piccola in stile Duomo di Milano sul Lungotevere è un falso ottocentesco, quando andava di moda il finto gotico e simili obrobbri.

Alla fine della navata, infatti, abbiamo un raro esempio di edicola gotica originale della fine del Trecento, in marmo chiaro, con altare con croce scolpita e dipinto attribuito a Palma il Giovane

ma che in origine ospitava la statua di Filippo d’Alençon e la Dormitio verginis che ora sono a sinistra


A destra il monumento funebre, sempre della stessa epoca, del cardinale Stefaneschi.


Accanto, la tomba Altemps, risalente alla fine del Cinquecento, con angeli sul timpano.


In fondo alla navata, la bellissima Cappella Altemps, con sontuoso soffitto affrescato della fine del Cinquecento e preziosa tavola di Madonna dipinta ad encausto, probabilmente del VI-VIII secolo (non sono riuscita a fotografarla perché c’era troppa gente).




L’abside è ornato dai meravigliosi mosaici del XII secolo, che mostrano Cristo che incorona la Vergine, e le Storie della Vergine di Pietro Cavallini.




Il ciborio è stato riassemblato nell’Ottocento ma con materiali antichi (cosa ci fosse prima, non si sa), anche l’altare è formato da lastre di epoca romana.


Navata sinistra: cinquecentesco monumento funebre del Cardinale Armellini.

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